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November 26, 2009

Seyn grazie all’innesto

del lessico hölderlinianoEraclito,

fuvsi" kruvptesqai file'i  «che

è madre di tutto e interroga l’abisso: la fuvsi". È solo attraverso l’opera d’arte, considerata come l’essere

essente, che tutto ciò che appare altrimenti, o si trova presente accidentalmente, risulta confermato

e reso accessibile, significante e intelligibile, come essente oppure come non-essente.

/ Siccome l’arte, nell’opera, porta in senso peculiare in posizione e all’evidenza l’essere come

essente, essa può venir considerata come il poter-porre-in-opera senz’altro, vale a dire come

tevcnh. Il porre-in-opera è aprente realizzare l’essere nell’ente. Questo superiore ed efficace

aprire e mantener aperto costituisce il sapere. La passione del sapere è il domandare. L’arte

è sapere, e per conseguenza, tevcnh. L’arte non è tevcnh per via che la sua realizzazione

comporti un’abilità “tecnica”, degli strumenti e dei materiali». Ma cfr. anche i passaggi sulla

Dichtung in GA 40, 180-181; 177-179: «Dal coro dell’Antigone di Sofocle apprendemmo, del

resto, che insieme all’incamminarsi verso l’essere accade, in pari tempo, il ritrovarsi nella

parola, nel linguaggio. / Trattando dell’essenza del linguaggio, sempre si riaffaccia il problema

dell’origine del linguaggio. Si cerca una risposta nelle più strane direzioni. E tuttavia, anche

in questo caso, la prima decisiva risposta alla domanda concernente l’origine del linguaggio

è che tale origine permane un mistero. E non già perché gli uomini non siano stati finora

abbastanza acuti, ma perché questa scaltrezza e tutta questa sagacità hanno fallito prima

ancora di potersi dispiegare. Il carattere misterioso fa parte dell’essenza dell’origine del linguaggio.

Ma ciò implica che il linguaggio non può avere avuto inizio che dal predominante

e dallo spaesante, nel mettersi in cammino dell’uomo verso l’essere. In questo mettersi in

cammino, il linguaggio, in quanto farsi parola dell’essere, fu essenzialmente dettatura. Il linguaggio

è la dettatura originaria nella quale un popolo detta l’essere. Per converso, la grande

dettatura per cui un popolo entra nella storia è quella che dà inizio alla formazione della

sua lingua. I greci hanno creato e sperimentato questa dettatura in Omero. La lingua era

aperta al loro esserci come mettersi in cammino nell’essere, come disvelante configurazione

dell’essente. […] La parola, il nominare, riporta l’essente che si schiude dal suo premere

immediato e prepotente nel suo essere, e lo mantiene in questa apertità, delimitazione e stabilità.

Il nominare non viene in un secondo tempo a fornire di una indicazione e di un contrassegno

che si chiama parola un essente già altrimenti manifesto; ma, al contrario, la parola

decade dall’altezza della sua violenza originaria, per la quale è apertura inaugurale dell’essere,

fino a semplice segno, a tal punto che questo finisce per ritrarsi davanti all’essente. Nel dire

originario, l’essere dell’essente si rivela nella compaginazione del suo insieme raccolto».

17 BB, 83; 136: «Ora sento che cosa ha comportato, quanto a sicurezza, la lunga disciplina

nell’interpretare l’antichità classica e i filosofi moderni» 

considerato, ma che rivela ancor più l’intima potenza della comprensione dell’essere da parte

dell’uomo, ovvero dello spiraglio di luce. Mi riferisco all’arte, e in essa, ad esempio, alla dettatura.

/ L’essenza dell’arte non sta nell’essere espressione del vissuto, non consiste nel fatto

che l’artista esprima nell’opera la sua “vita spirituale” affinché i posteri, come pensa Spengler,

possano chiedersi in che modo nell’arte si annunci l’anima culturale di un’epoca. E nemmeno

nel fatto che l’artista riproduca la realtà in modo più preciso e netto di altri o che crei

(o rappresenti) qualcosa che procuri ad altri un piacere o un godimento di tipo più o meno

elevato. Essa consiste piuttosto nel fatto che l’artista possiede la visione essenziale di ciò che

è possibile, mette in opera le nascoste possibilità dell’essente e in tal modo fa sì che gli uomini

vedano quell’essente reale in cui si aggirano ciecamente. Ciò che è essenziale nella scoperta

della realtà è accaduto e accade non già per opera delle scienze, ma grazie alla filosofia

originaria, alla grande dettatura e ai suoi progetti dettatici (Omero, Virgilio, Dante Shakespeare,

Goethe). La dettatura fa essere l’essente più essente. La dettatura, non la mera attività

letteraria! Ma per comprendere che cosa siano l’opera d’arte e la dettatura come tali, la

filosofia deve perdere l’abitudine di concepire il problema dell’arte in termini di estetica».

21 Ma cfr. anche GA 33, 137; 98: «I greci, Platone e Aristotele, non hanno solo dato l’interpretazione

del fenomeno della produzione, ma da tale interpretazione e in tale interpretazione

sono anche scaturiti i concetti fondamentali della filosofia [...] Ciò che i greci hanno

inteso con ejpisthvmh poihtichv. è stato esso stesso di primaria importanza per la loro comprensione

del mondo. Bisogna tenere ben presente quale sia il significato del fatto che l’uomo

abbia un rapporto con le opere che produce. È per questo motivo che in un certo libro intitolato

Essere e tempo si parla del commercio con l’utensile». Nel discorso di Rettorato del

’33 Heidegger ribadisce, in modo conseguente, come i greci lottassero costantemente per

attingere un domandare inteso come «la modalità più alta dell’ejnevrgeia, dell’“essere-all’opera”,

degli uomini» (GA 16a, 110; 20).

22 Cfr. i passaggi decisivi del corso, la cui prossimità alle riflessioni di Heidegger sull’opera

d’arte difficilmente può sfuggire: «Che cos’è, dunque, ejpisthvmh poihtichv, produzione?

Quel che si produce, quel che si deve produrre è l’e[rgon. L’e[rgon non scaturisce casualmente

da una qualunque operazione o occupazione; è, infatti, qualcosa che ogni volta deve essere

lì, a disposizione, qualcosa che deve mostrarsi in un certo modo, avere un determinato aspetto.

Quale sarà l’aspetto dell’opera compiuta deve già essere nello sguardo preliminarmente.

L’aspetto, ei\do", è già scorto sin dall’inizio, ed è scorto non in generale e complessivamente,

ma proprio in quello che deve risultare alla fine, quando l’opera sarà compiuta, portata a

termine. Con l’ei\do" dell’e[rgon si prende già preliminarmente in visione il suo essere-finito,

i termini che lo racchiudono. L’ei\do" dell’e[rgon è tevlo". Ma il termine che pone fine è, secondo

la sua essenza, limite, pevra". Produrre qualcosa significa di per sé: calare qualcosa nei

suoi limiti, in modo da avere sin dall’inizio nello sguardo la sua limitatezza e vedere tutto

quel che essa include ed esclude. Ogni opera è, secondo la sua essenza, “esclusiva” (un dato

di fatto per cogliere il quale noi barbari da lungo tempo non possediamo più un organo appropriato).

/ Si tratta di vedere dove abbia origine questa esclusività e in che modo si estenda

all’intera serie delle operazioni del produrre e quindi alla sua stessa costituzione. Infatti, solo

se si coglie in quale misura la produzione di un’opera sia di per sé tale da richiedere delle

esclusioni, diverrà chiaro perché proprio il produrre si riferisca, secondo la propria essenza,

all’opposto, all’escluso, e in che modo vi si riferisca. / Il produrre pone limiti ed opera esclusioni

in primo luogo perché quel punto cui è ancorato, per così dire, l’intero evento del produrre

è l’aspetto sotto il quale l’e[rgon si presenta preliminarmente come ei\do", tevlo", pevra".

Ora, però, come entra in funzione l’esclusione che qui ha luogo? Innanzitutto e in senso

eminente, nel fatto che l’ei\do" contiene in sé l’indicazione di un materiale (u{lh) ben determinato

con il quale dev’essere prodotto ciò che è da produrre; per esempio, una sega, che deve

servire per tagliare la legna, non può essere fatta di lana o di qualcosa come la lana, di un

materiale qualunque, ma può essere fatta solo, per esempio, di metallo. Nella misura in cui

produrre significa sempre produrre qualcosa da qualcosa, questo da-qualcosa, determinato però

ogni volta solo per mezzo di esclusioni e in esclusioni, aumenta la delimitazione nel produrre

stesso [c.n.]. / La delimitazione, però, non riguarda solo quei materiali che non vengono presi

in considerazione, ma riguarda anche e specificamente il materiale idoneo alla produzione;

giacché proprio questo materiale, in quanto tale, per esempio in quanto ferro o in quanto

metallo, non è ancora quel che da esso deve essere prodotto; visto a partire dall’ei\do", dal

tevlo", esso è piuttosto l’a[peiron, l’illimitato, quel che non è ancora stato portato entro limiti,

26

ma al tempo stesso anche quel che è da delimitare. Proprio perché in questo modo il materiale

specificamente designato è ritagliato sull’ei\do", proprio per questa ragione gli si contrappone

come l’illimitato. Pur così distanti l’uno dall’altro, il materiale e l’’ei\do", sono tuttavia

rivolti l’uno verso l’altro; dunque, uno stare di fronte, il necessario stare di fronte di cose che

si contrappongono, e una vicinanza, quella delle cose più lontane. Questo è il concetto dell’ejnantivon

greco: uno contro l’altro, il rivolgersi all’altro mostrandoglisi contrario: l’ejnantiovth"

(contrapposizione), che solo Aristotele ha pienamente chiarito nella sua essenza, non è ciò che

separa semplicemente le cose l’una dall’altra, senza che esse abbiano nulla in comune, ma è il

fronteggiarsi [c.n.]. L’ei\do", in quanto tevlo" e pevra", si procura necessariamente un tale contrasto

nell’a[peiron; nell’a[peiron limitato (u{lh), l’ei\do" diventa così la morfh dell’a[peiron.

Forma-materia: nella filosofia questo schema è diventato ormai qualcosa di scontato, ma non

è piovuto dal cielo già confezionato e pronto perché ci si servisse di esso. E solo perché

nell’essenza del produrre sussiste questa vicinanza di ei\do" e u{lh nasce la necessità che il produrre,

nelle singole fasi del suo decorso, costantemente operi esclusioni, disponga strutture,

nelle quali introduce certi elementi lasciandone fuori altri» (GA 33, 137-138; 98-99).

23 Ma cfr. ancora F.-W. von Herrmann, La filosofia dell’arte di Martin Heidegger, cit., che

in riferimento all’interpretazione già richiamata lega il senso di tale espressione a un primo

abbozzo della compagine articolata poi per esteso nei Contributi alla filosofia (Dell’evento),

il cui piano sarebbe stato «già definito, nei suoi tratti fondamentali, fin dalla primavera 1932»

(ivi, p. 24).

24 Che pure meriterebbe di essere restituito in modo più ampio, soprattutto, al di là di

Dilthey, Cassirer e Baeumler (fondamentale anche per la mediazione di Bachhofen e del tema

della terra), rispetto allo sfondo polemico delle correnti fenomenologiche, tra cui M. Geiger,

Beiträge zur Phänomenologie des ästhetischen Genusses, in «Jahrbuch für Philosophie und

phänomenologische Forschung», 1913, pp. 567-684; Id., Zugänge zur Ästhetik, Der Neue

Geist, Leipzig 1928; O. Becker, Von der Hinfälligkeit des Schönen und der Abenteuerlichkeit

des Künstlers. Eine ontologische Untersuchung im ästhetischen Phänomenbereich, in Aa. Vv.,

Festschrift Edmund Husserl zum 70. Geburtstag gewidmet, Niemeyer, Halle a. d. Saale 1929

(poi in Id., Dasein und Dawesen. Gesammelte philosophische Aufsätze, Neske, Pfullingen

1963, pp. 11-40); R. Ingarden, Das literarische Kunstwerk. Eine Untersuchung aus dem Grenzgebiet

der Ontologie, Logik und Literaturwissenschaft, Niemeyer, Halle a. d. Saale 1931).

25 Isolamento perfettamente riverberato da questi passaggi della lettera a Elisabeth Blochmann

del 18 settembre 1932 (al principio del già menzionato Urlaubssemester): «Ora sono

alla baita già da quattro settimane […]. Tutti i visitatori vengono già rimandati a Friburgo.

Quassù non ricevo neanche la posta, poiché nessuno sa dove sono. Vorrei rimanere qui fino

a Natale, ossia in pratica anche per i prossimi mesi […]. In un primo momento mi concentro

e lascio che le cose arrivino – è singolare – oppure no – non appena sono immerso nella

solitudine di quassù, tutto mi balza addosso; anche gli umori e le domande e le posizioni delle

precedenti settimane di lavoro – e così ho per lo meno la sensazione di ritornare a crescere

[…] Per il momento studio i miei manoscritti, cioè leggo me stesso, e devo dire che questo

in positivo e in negativo è molto più fruttuoso di altre letture, di cui comunque ho poca

voglia e poche occasioni […]. Non verrò tanto presto in Germania centrale […], dato che

vorrei lavorare in totale concentrazione fino alla prossima estate» (BB, 53-54; 90-91). Di passaggio,

si può notare che l'assunzione di una datazione alta della conferenza (ante 1933)

contribuisce a rendere meno perspicua la tesi centrale di P. Lacoue-Labarthe, La finzione del

politico. Heidegger, l'arte e la politica, tr. it. a cura di G. Scibilia, Il Melangolo, Genova, 1991,

che interpreta l'imporsi della meditazione sull'arte come testimonianza della delusione politica

post-rettorale e come svolta dal nazionalsocialismo a un «nazional-estetismo» sostanzialmente

mediato da Hölderlin.

26 Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis) (1936-38); Die Überwindung der Metaphysik

(1938/39); Besinnung (1938/39); Die Geschichte des Seyns (1939); Über den Anfang (1941);

Das Ereignis (1941/42); Die Stege des Anfangs (1944).

27 Nel segmento 192 dei Contributi alla filosofia, Heidegger sostiene che l’immaginazione,

intesa ancora e soltanto, nel Kant-Buch, come una facoltà dell’anima e come attività trascendentale,

va ripensata in realtà come «l’evento stesso, nel quale vibra ogni trasfigurazione. /

L’“immaginazione” in quanto accadimento della radura stessa» (GA 65, 312).

28 Ossia il riferimento alla notte del sacro e alla lontananza del divino nell’orizzonte dell’attesa

e dell’annuncio, la cui espunzione, nell’esegesi delle tesi heideggeriane sull’arte (anche

di quelle più avanzate, per esempio in rapporto alla questione della tecnica), crea sovente

27

problemi interpretativi di vario genere, compresa la difficile collocazione della «quaternità»

di terra e cielo, mortali e divini, che si struttura a partire dai Contributi alla filosofia. Tra i

tanti luoghi heideggeriani, si può ricordare di passaggio la postfazione del 1943 a Che cos’è

metafisica?: «Il pensiero dell’essere protegge la parola, e in questa cautela compie la sua missione.

Esso è la cura per l’uso del linguaggio. Dal silenzio a lungo custodito e dall’accurata

chiarificazione dell’ambito in esso diradato viene il dire del pensatore. Dalla stessa fonte

proviene il nominare di colui che detta. Ma poiché il simile è simile solo in quanto è distinto,

e il dettare e il pensare si somigliano nel modo più puro nella cura della parola, essi sono ad

un tempo separati nella loro essenza da una distanza grandissima. Il pensatore dice l’essere.

Colui che detta nomina il sacro» (GA 9, 311-312; 265-266). Sul tema del sacro cfr. A. Ardovino,

L’estetica in prospettiva teologico-politica: Martin Heidegger (1889-1976), in P. Montani

(a cura di), L’estetica contemporanea. Il destino delle arti nella tada modernità, Carocci,

Roma 2004, pp. 174-177. Meriterebbe del resto uno specifico approfondimento il confronto

tra l’esegesi hölderliniana degli anni ’30 (soprattutto in riferimento al «Dio ultimo») e le

tematiche già sviluppate da Heidegger al principio degli anni ’20 nell’ambito della fenomenologia

dell’annuncio ricostruita a partire da Paolo, su cui cfr. A. Ardovino, Heidegger. Esistenza

ed effettività – Dall’ermeneutica dell’effettività all’analitica esistenziale (1919-1927), Guerini,

Milano 1995, pp. 85 ss.; Id., “Quomodo ergo iustus dirigi potest nisi in occulto?”. Considerazioni

di struttura sul rapporto tra fenomenologia e teologia in Heidegger (1919-27), in

«Rassegna di teologia», 3 (2000), pp. 367-394; Id., Il Dio estraneo e la rete dell’evento: Heidegger

tra Paolo e Marcione. Note sul problema teologico-politico e l’interpretazione fenomenologica

del cristianesimo, in G. Lettieri (a cura di), Teologia politica, Bulzoni, Roma 2003.

29 Nella già citata intervista allo Spiegel del ’69, Heidegger ribadirà com’è noto: «Il mio

pensiero sta in un rapporto inaggirabile con la dettatura di Hölderlin. In non considero Hölderlin

un qualunque poeta, la cui opera gli storici della letteratura prendono in considerazione

accanto a quella di molti altri. Per me Hölderlin è colui che detta, che indica verso il

futuro, che attende il Dio e che quindi non può restare soltanto un oggetto della Hölderlin-

Forschung nel quadro di una considerazione di tipo storico-letterario» (GA 16b, 678; 147).

30 Un’eccellente ricostruzione del confronto con Hölderlin, seguito in particolare attraverso

i corsi accademici, si trova in S. Ziegler, Heidegger, Hölderlin und die Alhvqeia. Martin

Heideggers Geschichtsdenken in seinen Vorlesungen 1934/35 bis 1944, Duncker & Humblot,

Berlin 1991. Cfr. anche, nel panorama ormai estremamente consistente delle monografie

su Heidegger e Hölderlin, l’interpretazione di E. Brito, Heidegger et l’hymne du sacré, Presses

Universitaires, Leuven 1999. Cfr. infine G. Moretti, Il poeta ferito. Hölderlin, Heidegger e la

storia dell’essere, La Mandragora, Imola 1999.

31 Per quanto attiene in generale ai pronunciamenti heideggeriani sull’arte e sulla dettatura

(non ancora tecnicizzata sulla base del confronto con Hölderlin) precedenti gli anni ’30,

su cui ovviamente non possiamo soffermarci in modo adeguato, si debbono menzionare almeno

i seguenti. Nel corso del fondamentale semestre invernale 1925-26 intitolato Logica. La

questione della verità, in cui viene esposta la prima interpretazione dello schematismo kantiano,

Heidegger compie una notevole digressione sulla sensibilizzazione (Versinnlichung) e sulla

rappresentazione/esibizione (Darstellung) artistica in riferimento a Franz Marc – che sarebbe

istruttivo porre a confronto col più tardo riferimento a Van Gogh –, attingendo interessanti

conclusioni sul tema del «concetto ermeneutico» e sulla capacità dell’arte di mostrare

la costituzione concreta della Umwelt: «La fotografia di un cane e l’immagine di un cane in

un manuale di zoologia e il dipinto “il cane” esibiscono qualcosa di diverso e in un modo

diverso. I caprioli nel bosco, dipinti per esempio da Franz Marc, non sono questi caprioli in

questo determinato bosco, ma “il capriolo nel bosco”. È possibile definire una tale esibizione

nel senso dell’arte come una schematizzazione, la sensibilizzazione di un concetto, sempre a

condizione che qui “concetto” non venga compreso come “concetto teoretico”, come il concetto

zoologico del capriolo, ma come il concetto di un essente che compare facendosi innanzi

insieme a me nel mio mondo e che, come me, ha nel mondo che condividiamo un mondo

circostante; il capriolo, per così dire, come “abitatore del bosco” contro il concetto anatomico-

zoologico del capriolo. Se si presta attenzione a questa distinzione tra i due concetti,

allora è effettivamente possibile dire che nell’arte è esibito il concetto; lo si può dire se

inoltre si presta attenzione alla tendenza e alla modalità di comprensione cui questi diversi

concetti corrispondono. Ma con questo non s’intende solo dire che questa sensibilizzazione

nell’esibizione artistica si distingue essenzialmente da una semplice riproduzione pittorica,

così come si distingue da una schematizzazione teoretica, fatta per esempio per scopi zoolo28

gici. Nell’esibizione artistica è esibito un concetto che in questo caso esibisce la comprensione

di un esserci, più esattamente di un essente che è insieme a me nel mio mondo circostante,

la comprensione di un essente e del suo essere nel mondo; esibisce, infatti, l’essere-nel-bosco

del capriolo e la modalità del suo essere-nel-bosco. Definiamo questo concetto del capriolo

e questo concetto del suo essere come concetto ermeneutico, in contrapposizione ad un puro

concetto cosale» (GA 21, 364; 240). Nel semestre estivo del 1927 su I problemi fondamentali

della fenomenologia ricorrono già alcune tesi sulla dettatura attinte in riferimento a Rilke,

che tuttavia risentono ancora fortemente della prospettiva trascendentale dell’ontologia fondamentale

di Essere e tempo e della sua interpretazione della mondanità del mondo, per cui

il fine specifico di ogni »dichtende« Rede poteva essere costituito, tra l’altro, dalla « comunicazione

delle possibilità esistenziali della disposizione affettiva, ossia l’apertura dell’esistenza»

(GA 2, 216; 206): «La dettatura non è altro che questo elementare venire-alla-parola, cioè la

scoperta progressiva dell’esistenza come essere-nel-mondo. Ciò che essa esprime permette di

fra vedere agli altri, che prima erano ciechi, il mondo» (GA 24, 244; 164); qui «il mondo, cioè

l’essere-nel-mondo – Rilke lo chiama la vita – scaturisce in maniera elementare a noi dalle

cose. Ciò che nel passo citato Rilke legge nel muro messo a nudo non è trasferito in esso

dettaticamente (hineingedichtet): al contrario, la sua descrizione è possibile soltanto come

interpretazione e illuminazione di ciò che “davvero” è nel muro, che dal muro scaturisce nel

rapporto naturale che con esso noi abbiamo. Colui che detta è in grado non soltanto di vedere

questo mondo originario, pur senza riflettervi o scoprirlo in maniera teoretica, ma anche

di comprendere quel carattere filosofico del concetto di vita che già Dilthey aveva intravisto

e che noi abbiamo compreso attraverso il concetto di esistenza come essere-nel-mondo»

(GPP, 246-47; 165). Nel semestre invernale 1927-28, dedicato integralmente alla Critica della

ragione pura, Heidegger valorizza le tesi del § 28 dell’Antropologia, in cui Kant riformula la

distinzione tra immaginazione produttiva e riproduttiva come inventiva e reinventiva. L’inventivo

è qui il dichtend, distinto tuttavia dallo schöpfend. L’immaginazione produttiva è dunque

inventiva, ma non creativa, in quanto deve sempre rifarsi a qualcosa di preliminarmente dato.

In uno dei passaggi conclusivi del semestre, giocando peraltro appieno sull’ambiguità dei

termini, che invece saranno drasticamente ridimensionati allorché, nel trattato definitivo sull’opera

d’arte, Heidegger escluderà senz’appello che l’arte possa essere interpretata in termini

di immaginazione o di fantasia, comunque esse siano intese, si afferma che «L’immaginazione

produttiva è perciò originaria, cioè, nella sua attuazione, liberamente offerente, essa è libera

facoltà della dettatura (Dichtungsvermögen). Essa è la facoltà ontologica radicale [...] e solo

perché facoltà ontologica fondamentale essa è la libera unità estatica della temporalità originaria;

solo perché facoltà ontologica ha il carattere della possibilità della dettatura (Dichtungsmöglichkeit)

in quanto synthesis speciosa – solo per questo è possibile qualcosa come il vincolamento

ontico della conoscenza empirica mediante i fenomeni. Qui si mostra più concretamente,

entro l’ambito della problematica trascendentale e ontologica [...] il rapporto originario

tra libertà e necessità: l’afferramento dell’ontico come essente in se margine della libera

dettatura (freie Dichtung) dei rapporti temporali» (GA 25, 417; 245). Infine, nel corso del

celeberrimo dibattito con Cassirer svoltosi a Davos nel 1929, Heidegger sostiene polemicamente,

ancora nel quadro della metafisica dell’esserci, che «L’arte non è soltanto una forma

della coscienza che viene configurandosi, bensì l’arte stessa ha un senso metafisico entro l’accedere

fondamentale dell’esserci stesso» (GA 3, 291; 232).

32 Il che coinciderebbe peraltro con l’autotestimonianza desumibile da un passo del trattato

ancora inedito Das Ereignis (1941), citato da O. Pöggeler, Il cammino di pensiero di

Martin Heidegger, tr. it. a cura di G. Varnier, Guida, Napoli 1991, p. 260, secondo cui proprio

nel 1929-30 «la parola di Hölderlin, prima conosciuto in primo luogo come un poeta tra

gli altri, divenne destino».

33 Tale processo raggiunge verosimilmente uno dei suoi vertici nel seminario, non ancora

pubblicato, tenuto con il giurista Erik Wolf su Hegel, Über den Staat nel corso del semestre

invernale 1933-34. Sulla trasformazione del Dasein heideggeriano cfr. il fondamentale volume

di J. Derrida, Dello spirito. Heidegger e la questione, tr. it. a cura di G. Zaccaria, Feltrinelli,

Milano 1989, e in particolare E. Mazzarella, Tecnica e metafisica. Saggio su Heidegger,

Guida, Napoli 1981, pp. 65 ss., e Id., Introduzione a G. Neske – E. Kettering (hrsg.v.), Risposta.

A colloquio con Martin Heidegger, cit., pp. 5-36, poi in E. Mazzarella, Ermeneutica

dell’effettività. Prospettive ontiche dell’ontologia heideggeriana, Guida, Napoli 1993, pp. 81-

114, dove è questione del processo storico-filosofico che «spinge l’“analitica esistenziale” a

ridefinire in senso metasingolare, a trasformare in un “noi” l’attestazione dell’autenticità del29

l’Esserci nella decisione» (ivi, p. 99) e in definitiva della «sostanza idealistica […] del concetto

di spirito heideggeriano» (ivi, p. 102).

 

p. 97: «Infatti l’architettura apre la strada alla realtà adeguata del Dio, e a suo servizio si affatica

intorno alla natura oggettiva, per trarla fuori dal ginepraio della finitezza e della deformazione

dell’accidente. Con ciò essa spiana il posto per il Dio, plasma il suo ambiente esterno,

gli costruisce il tempio come luogo per il raccoglimento intimo e per il rivolgersi agli

oggetti assoluti dello spirito. Fa sorgere una recinzione per la riunione dei fedeli, come difesa

contro la minaccia della tempesta, contro la pioggia, le intemperie e le fiere, e rivela questa

volontà di riunirsi in modo conforme all’arte, seppure esteriore».

36 Sul tema dell’eredità hegeliana cfr. in modo particolare J. Taminiaux, Le dépassement

heideggerienne de l’esthetique et l’héritage de Hegel, in Id., Recoupements, Ousia, Bruxelles

1982, pp. 175-208, ma anche il fondamentale contributo ermeneutico di O. Pöggeler, Die

Frage nach der Kunst. Von Hegel zu Heidegger, Alber, Freiburg-München 1984. Sul tema

della fondazione storica e della decisione sull’essenza dell’arte cfr. più in breve P. Montani,

con A. Ardovino e D. Guastini, Arte e verità dall’antichità alla filosofia contemporanea. Un’introduzione

all’estetica, Laterza, Roma-Bari 20032, pp. 326 ss.

37 Ma va ricordato che il tema del radicamento al suolo, portato all’estremo dall’ideologia

nazionalsocialista, era moneta corrente in molti ranghi dell’università tedesca. Per lo stesso

Heidegger se ne può attestare l’uso in anni precedenti. Nella lettera del 20 ottobre 1929 a

Victor Schwörer, Heidegger sosteneva che al momento ci si trovava, collettivamente, di fronte

alla scelta «se alimentare ancora una volta la nostra vita spirituale tedesca con energie ed

educatori autenticamente radicati al suolo (bodenständig) oppure consegnarla in modo definitivo

alla crescente giudaizzazione, in senso ampio e ristretto». La lettera è stata pubblicata

a cura di U. Sieg sul quotidiano Die Zeit, n. 52, 22 dicembre 1989, p. 50 (per una versione

italiana cfr. M. Heidegger, Scritti politici [1933-1966], tr. it. a cura di M. Borghi e G. Zaccaria,

Piemme, Casale Monferrato 1998, p. 309).

38 Cfr. A. Ardovino, Heidegger. Esistenza ed effettività, cit.

39 Ma cfr. anche i vv. 71-74 della terza stesura de L’unico, canto decisivo anche per la

sezione dei Contributi alla filosofia sul Dio ultimo: «Sempre infatti esulta il mondo / via da

questa terra, perché la / spoglia; dove l’umano non lo trattenga» (F. Hölderlin, Poesie, tr. it.

a cura di L. Crescenzi, Rizzoli, Milano 2001, p. 363).

40 «L’uomo – non come una delle cose che strisciano e sono di passaggio sulla terra, ma

come il senso della terra, ammesso ciò debba significare che con il suo esserci e attraverso di

esso tutto l’essente in quanto tale sorge, si chiude (perviene sotto il comando), riesce e naufraga

e di nuovo fa ritorno nell’origine» (GA 39, 61).

41 Su cui cfr. almeno le sezioni più significative di alcuni dei trattati inediti finora pubblicati:

GA 65, 503-508; GA 66, 31-40; GA, 67a, 107-109.

Dell’origine dell’opera d’arte e altri scritti

di Martin Heidegger

33

Dell’origine dell’opera d’arte

Prima stesura 1

[5] Ciò che può essere detto qui, nell’ambito di una conferenza

sull’origine dell’opera d’arte, è sufficientemente poco, molto di questo,

forse, sorprendente, il più, però, esposto a fraintendimenti. Ma al di là

di tutto questo deve contare una cosa soltanto, vale a dire: rendendo

tutto l’omaggio a quanto da lungo tempo è stato detto e pensato circa

la determinazione essenziale dell’arte, preparare insieme una mutata

posizione di fondo del nostro esserci nei confronti dell’arte.

Opere d’arte ci sono note. Opere architettoniche e opere plasticofigurative,

opere musicali e opere in parole sono collocate e sistemate

qua e là. Le opere rimontano alle epoche più diverse; esse appartengono

al nostro proprio popolo e a popoli stranieri. Per lo più conosciamo

anche l’“origine” delle [6] opere d’arte sussistenti in tal guisa; infatti,

da dove altro dovrebbe trarre la sua origine un’opera d’arte, se

non dalla produzione per mano dell’artista? A costui competono due

processi: in primo luogo il concepimento dell’idea artistica all’interno

dell’immaginazione e successivamente la trasposizione dell’idea nel prodotto

artistico. Entrambi sono di pari importanza, sebbene il concepimento

dell’idea artistica rimanga la condizione preliminare della sua

esecuzione e di conseguenza ciò che è “più originario”. Il concepimento

dell’idea è un processo puramente spirituale, che si lascia volentieri

descrivere come un’“esperienza vissuta di ordine psichico”. Da ciò

matura un contributo alla psicologia della produzione dei prodotti artistici.

Simili cose possono essere giustamente istruttive, soltanto non

arrecano mai un chiarimento dell’origine dell’opera d’arte. Da che dipende

ciò? Innanzitutto dal fatto che qui “origine” viene semplicemente

equiparata a “causa” dell’essere-sussistenti delle opere d’arte. Questo

dubbio indirizzarsi alla “causa” viene spacciato per ovvio perché non

si prendono le mosse dall’opera d’arte, bensì dal prodotto artistico in

quanto pezzo di bravura artistica. Resta certamente corretto: la creazione

d’arte sorge dal “combattimento spirituale” dell’artista. La produzione

è la sua capace prestazione. Quest’ultima si fa “espressione” della

sua “personalità”, la quale si “sfoga morendo” nella produzione e si

“libera” della “sua tempesta interiore”. In questi termini l’opera d’arte

è anche sempre un prodotto dell’artista. Tuttavia – questo essere-ge34

nerata non costituisce l’essere-opera dell’opera. Lo è così poco che,

ogni volta, la volontà più propria della produzione si strugge nel far sì

che l’opera poggi su se stessa. In particolare nella grande arte – e di

essa soltanto qui si discorre – l’artista resta un che di indifferente rispetto

alla realtà dell’opera, quasi alla stregua di un passaggio transitorio,

annullantesi nel fare artistico.

La domanda sull’origine dell’opera deve badare in primo luogo a

prendere realmente avvio dall’opera d’arte in quanto tale. Per questo

è manifestamente necessario andare a visitare l’opera d’arte proprio là

dove essa, già svincolata dalla produzione, è sussistente di per sé. Opere

d’arte le incontriamo nelle collezioni e nelle esposizioni d’arte. Esse

vi sono sistemate. Troviamo opere d’arte su pubbliche piazze e nelle

abitazioni private di singoli. Esse vi sono collocate. Le opere sono bene

in vista; sicché la ricerca storico-artistica determina la loro provenienza

e la loro appartenenza storica. Intenditori d’arte e scrittori d’arte

descrivono il loro contenuto e spiegano le loro – come suol dirsi –

“qualità” e rendono così accessibili le opere alla fruizione artistica collettiva

e individuale. Amanti dell’arte e appassionati d’arte promuovono

la raccolta di opere d’arte. Uffici pubblici si fanno carico della cura

e del mantenimento delle opere d’arte. Il commercio d’arte provvede

al mercato. Così, intorno alle opere d’arte sussistenti di per sé si genera

una mena di attività che, in breve e senza alcun significato spregiativo,

denominiamo industria dell’arte. Essa procura la via d’accesso alle

stesse opere d’arte. Certamente – dal momento che esse, ora, sono

sciolte dal riferimento alla produzione per mano dell’artista. Tuttavia,

il semplice prescindere da questo riferimento non garantisce ancora

che noi, ora, sperimentiamo l’essere-opera dell’opera; giacché l’industria

dell’arte, in verità, conduce [7] ancora una volta le opere all’interno

di un riferimento, e precisamente a quello dell’attività collaterale

che circonda le opere. Qui l’opera viene incontro nel modo in cui è

oggetto dell’industria dell’arte che prende cura, che spiega e che fruisce.

Ma siffatto essere-oggetto, di nuovo, non dev’essere equiparato

all’essere-opera dell’opera.

Portiamoci dinanzi ad opere della grande arte – in cospetto degli

Egineti nella collezione di Monaco, dinanzi alla “Barbarina” di Strasburgo

al Liebighaus di Francoforte 2, oppure nella cerchia dell’“

Antigone” di Sofocle. Le opere sono trasferite dal loro luogo e spazio

autentici. Quanto al rango complessivo e a tutte le cosiddette “qualità”,

nonché alla capacità di provocare un’impressione, il loro essereopera,

di certo, non è più quello autentico. Per quanto possano essere

ancora così ben conservate e comprensibili, il trasferimento all’interno

della collezione e l’assunzione nella custodia che ne assicura la trasmissione

le hanno sottratte al loro mondo. Ma anche se ci affatichiamo

a rendere reversibili o ad evitare simili trasferimenti di opere, an35

dando per esempio a visitare il tempio di Pæstum sul posto e il duomo

di Bamberga sulla sua piazza – il mondo delle opere conservate si

è disgregato. Possiamo ovviamente riprodurlo nei suoi tratti e figurarcelo

nella rammemorazione storica. Tuttavia, sottrazione-di-mondo e

disgregazione-di-mondo non saranno mai più reversibili. Certamente,

potremmo fare esperienza delle opere come “espressione” della loro

epoca, come testimonianze di ciò che furono un tempo grandiosità e

potenza di un popolo. Possiamo “entusiasmarci” per i nostri “maestosi

duomi tedeschi”. E tuttavia – sottrazione-di-mondo e disgregazione-dimondo

hanno infranto il loro essere-opera.

L’essere-oggetto delle opere all’interno dell’industria dell’arte, l’essere-

generate delle opere per mano dell’artista sono entrambe determinazioni

possibili dell’essere-opera. Ma quelle sono una conseguenza,

questa invece una condizione concomitante dell’essere-opera [sic]. Non

soltanto quelle non esauriscono quest’ultima, ma persino inibiscono –

prese per sé – lo sguardo sull’essere-opera e sul rispettivo sapere.

Tuttavia, fintanto che non cogliamo l’opera nel suo essere-opera, la

domanda sull’origine dell’opera d’arte rimane senza un punto d’avvio

assicurato in maniera sufficiente.

Ma perché, in effetti, la determinazione dell’essere-opera dell’opera

è così difficile? Perché l’essere-opera si determina a partire da ciò in

cui l’opera prende fondo. E questo fondamento soltanto è l’origine dell’opera

d’arte secondo la sua essenza e la sua necessità. Esso non risiede

nell’artista come causa dell’essere-generata dell’opera. L’origine dell’opera

d’arte è l’arte. L’arte non è perché ci sono opere d’arte, bensì,

al contrario, poiché e in quanto accade arte, persiste la necessità

dell’opera. E soltanto la necessità dell’opera è il fondamento di possibilità

dell’artista.

36

Per il momento, si tratta semplicemente di affermazioni. Esse ci

conducono a una situazione singolare. La domanda sull’origine dell’opera

d’arte deve procedere dall’essere-opera dell’opera. Ma questo

essere-opera si determina in primo luogo, ovvero di già, a partire dall’origine.

Ciò che cerchiamo, l’origine, dobbiamo già possederlo, e ciò

che possediamo, dobbiamo dapprima cercarlo. Qui ci muoviamo in

circolo. Ma tutte le volte – quanto meno in filosofia – ciò deve [8] valere

come contrassegno del fatto che la formulazione della domanda è

in ordine. La difficoltà in base alla quale soltanto e per la prima volta

a conclusione dell’esposizione siamo pronti per il cominciamento è

inaggirabile.

Alla co-esecuzione del movimento circolare del nostro domandare

perveniamo però soltanto mediante un salto. E, alla fin fine, questo

salto è l’unica modalità del corretto e concomitante sapere dell’origine

circa la quale ci informiamo nella domanda. In tal senso, tutto dipende

dal fatto che prendiamo il corretto slancio per questo salto. Secondo

l’impianto delle presenti considerazioni, esso consiste nell’acquisizione

del sufficiente concetto preliminare dell’opera d’arte nel suo

essere-opera.

I – L’opera d’arte in quanto opera

Quanto detto fin qui serviva alla prevenzione dei fraintendimenti

nei confronti dell’essere-opera dell’opera, vuoi nel senso dell’esseregenerata

per mano dell’artista, vuoi in quello dell’essere-oggetto dell’industria

dell’arte. Per lo più, essi si trovano persino congiunti. L’opera

d’arte vi sta ancora e sempre in un riferimento ad altro e non viene

afferrata concettualmente a partire da essa stessa. Ma possiamo poi

in generale cogliere qualcosa di per se stesso, all’infuori di ogni riferimento?

Come minimo, inoltre, questo stesso cogliere è certamente e

ogni volta un riferimento. Questa questione fondamentale sia lasciata

per ora da parte. Essenziale, in vista del nostro compito, è adesso

un’altra domanda: in generale, il tentativo di riscattare l’opera da ogni

riferimento ad altro all’infuori di essa non contravviene proprio all’essenza

dell’opera stessa? Certamente, giacché l’opera vuol essere manifesta

in quanto opera. E per la precisione essa non viene condotta in

via supplementare all’interno di una manifestatività, a ciò non si mira

nemmeno o soltanto in una concomitanza, bensì essere-opera significa

essere-manifesto. Però la domanda è che cosa vogliano dire, qui, manifestatività

e dimensione pubblica. Non il pubblico che all’interno

dell’industria dell’arte e in concomitanza con essa girovaga di qua e di

là. In generale, ciò in cui l’opera “opera” mentre sta sospesa fuori nell’aperto

non è mai qualcosa di sussistente nel quale essa abbia soltanto

37

ad imbattersi come in un destinatario appropriato, bensì nell’esseremanifesto

dell’opera quest’ultima si procura per la prima volta la propria

dimensione pubblica. Rispetto al “pubblico”, laddove esso esiste,

l’unico riferimento che essa possiede è il distruggerlo. E da questa forza

di distruzione si misura la grandezza di un’opera d’arte.

Da sé, questo prendere riferimento nell’aperto è certamente essenziale

per l’essere-opera; ma esso prende fondo, per parte sua, nel tratto

fondamentale dell’essere-opera, che ora dev’essere portato gradualmente

alla luce.

Noi domandiamo dell’opera come essa è di per sé e presso di essa.

L’opera è presso se stessa fintanto che essa, l’opera, è all’opera. E

l’opera d’arte è all’opera nella sua disposizione.

Con questa denominazione sia indicato un tratto nell’essere-opera

dell’opera. Rispetto all’opera d’arte, si parla abitualmente di “disposizione”

nel senso della sistemazione di un’opera in una collezione o

della collocazione dell’opera in un posto appropriato. Dalla mera sistemazione

e collocazione la disposizione è essenzialmente diversa nel

senso dell’erezione: ad esempio, il costruire un determinato tempio di

Zeus, oppure il porre-diritta, ovvero il [9] portare-in-posizione una

determinata statua di Apollo, oppure il portare in scena una tragedia,

che però, allo stesso tempo, non è soltanto l’erezione di un’opera dettatica

e in parole nella lingua di un popolo.

Siffatta disposizione in quanto erezione è consacrazione e celebrazione.

Consacrare significa “rendere sacro”, nel senso che nell’offerta

conforme all’opera il sacro viene aperto in modo inaugurale in quanto

ciò che è sacro e il Dio viene cercato strappandolo dentro l’aperto

della sua presenzialità. Alla consacrazione appartiene la celebrazione in

quanto omaggio alla dignità e allo splendore del Dio. Dignità e splendore,

i quali vengono aperti in modo inaugurale nel celebrare che è

conforme all’opera, non sono proprietà, accanto o dietro alle quali, oltre

ciò, stia ancora il Dio, bensì esso si fa presente nella dignità e nello

splendore.

Ogni disposizione nel senso dell’erezione consacrante-celebrante è

anche sempre posizione-costruttiva in quanto modalità di collocazione

dell’edificio e della statua, in quanto dire e nominare all’interno di una

lingua. All’inverso, però, una collocazione e una sistemazione di un

“prodotto artistico” non sono già una disposizione nel senso dell’erezione

che pone-in-costruzione; questa, infatti, presuppone che l’opera

da erigere, da disporre, possieda già in sé il tratto essenziale della disposizione,

sia cioè essa stessa, in ciò che le è più proprio, disponente.

Ma in che modo dobbiamo cogliere questa “disposizione” autentica,

che contribuisce a costituire l’essere-opera dell’opera?

L’opera è in sé un ergersi nel quale un mondo viene spalancato a

forza e, in quanto aperto in modo inaugurale, messo a dimora. Ma che

38

cos’è – un mondo? Ciò si lascia dire qui esclusivamente nell’allusione

più grezza. Per cominciare con una prevenzione: il mondo non è l’agglomerato

delle cose sussistenti in quanto risultato di un’enumerazione,

eseguita in dettaglio o anche solo pensata, delle medesime. Tuttavia,

se non è la somma di ciò che è sussistente, tanto meno il mondo

è l’ambito solamente immaginato e mentalmente prefigurato per il sussistente.

Il mondo mondifica – esso dirotta il nostro esserci in quanto

è una scorta all’interno della quale permangono aperti, per noi, l’indugio

e la fretta, la lontananza e la prossimità, l’ampiezza e l’angustia di

ogni essente. Questa scorta non viene mai incontro come oggetto, ma,

indiziando, trattiene estatizzati il nostro fare e lasciare entro una compaginazione

di rimandi, a partire dai quali la grazia che chiama con un

cenno e la sciagura che abbatte con un colpo, proprie degli Dèi, hanno

il loro avvento – e restano assenti. Anche questo restare-assente è

una modalità in cui il mondo mondifica. Questa scorta indiziante può

soccombere al disordine ed essere così un non-mondo. Tuttavia, sia

essa mondo o non-mondo, questa scorta indiziante resta sempre, in

ogni inoggettualità, più essente di qualsiasi delle cose sussistenti e a

portata di mano, nelle quali, in modo conforme alla quotidianità, crediamo

di essere di casa. Il mondo, però, è sempre il non-familiare;

mentre sappiamo ciò, non sappiamo cosa sappiamo. (Ma il mondo

[non è] mai oggetto contrastante, che sta dinanzi a noi, bensì in-oggetto

nel senso di in-contrastante, che noi esploriamo).

Ora, il mondo è ciò che l’opera in quanto opera es-pone, esso cioè

e-rompe e conduce l’aperto a stare, alla dimora mondificante. Es-ponendo

in tal guisa, l’opera è all’opera. Un prodotto artistico in senso

ampio al quale faccia difetto questo tratto essenziale della disposizione-

di-mondo non è un’opera d’arte, ma un pezzo di bravura artistica,

che non è all’opera in nulla, bensì mette soltanto in mostra un vuoto

essere-capace e forse provoca persino una qualche “impressione”.

[10] Mentre l’opera reale, ergendosi, libera e tiene in serbo un

mondo, in essa è all’opera quel sovrano rifiuto che allontana il sussistente

usuale. Il non-familiare che si addensa attorno ad ogni opera è

quell’isolamento nel quale l’opera stessa – proprio e soltanto disponendo

il suo mondo – si ripone. Esclusivamente in forza di questa solitudine,

all’opera riesce di ergersi-fuori nell’aperto, inaugurandolo, e di

procurarsi la sua dimensione pubblica. Tutte le cose che allora entrano

a far parte della sua cerchia mutano in modo tale che è come se le

avesse colpite un che di inesauribile-inaggirabile.

Mentre l’opera è opera, essa conduce il suo mondo all’aperto ergersi,

si procura per la prima volta il compito al servizio del quale sta, crea essa

stessa, per la prima volta, lo spazio che essa domina da parte a parte,

determina essa stessa, per la prima volta, il luogo nel quale essa giunge

all’erezione. La disposizione come erezione consacrante-celebrante

39

prende sempre fondo nella disposizione come ergentesi liberazione di

un mondo. Quella può restare interdetta a questo. Quella può insabbiarsi

nell’inessenziale della mera collocazione di prodotti artistici. Dopotutto,

all’opera eretta può toccare la sorte della sottrazione-di-mondo

e della disgregazione-di-mondo. L’opera resta certamente sussistente, ma

non c’è più, è in fuga. Questo essere-via non è però un nulla, bensì la

fuga stessa permane nell’opera sussistente, posto che essa sia un’opera,

e allora tale fuga si trova ancora soltanto nel frammento (laddove l’intatta

conservazione di un prodotto non ne fa ancora un’opera).

In uno con l’es-posizione, all’essere-opera dell’opera appartiene la

deposizione. Fin dall’inizio, mettemmo senz’altro da parte la produzione

per mano dell’artista, giacché l’essere-opera non può essere afferrato

concettualmente a partire dall’essere-generata, bensì, al contrario,

l’essere-generata a partire dall’essere-opera. Ma con deposizione e produzione

non intendiamo il medesimo. Per contrassegnare il tratto essenziale

nell’essere-opera denominato con questo termine, procediamo,

corrispondentemente a quanto abbiamo fatto per la “disposizione”,

dal significato corrente. Ogni opera, in quanto essa è, è deposta a partire

da pietra, legno, metallo, colore, suono e lingua. Tutto ciò, impiegato

nell’approntamento, lo si chiama materia. Essa viene condotta

entro una forma. Successivamente, tale scomposizione dell’opera d’arte

secondo materia e forma lascia maturare ancora ulteriori distinzioni

secondo argomento, contenuto e configurazione. L’utilizzo delle determinazioni

di materia e forma in riferimento all’opera d’arte è possibile

sempre e in qualsiasi momento, di esso si occupano tutti con facilità e

per questo, da secoli, è divenuto corrente. E tuttavia, tali determinazioni

non sono affatto ovvie. Esse discendono dall’interpretazione del

tutto univoca dell’essente che Platone e Aristotele fecero valere alla

fine della filosofia greca. Secondo di essa, tutto l’essente possiede ogni

volta un suo proprio aspetto, che si mostra nella sua forma. Un essente

sta all’interno di tale forma in quanto è approntato a partire da

qualcosa e in vista di qualcosa. Esso può apprestare se stesso in direzione

di ciò che esso stesso è, come tutto ciò che è cresciuto spontaneamente;

esso può essere fabbricato. L’essente in quanto essente è

sempre il sussistente approntato. Quest’interpretazione dell’essere dell’essente,

tuttavia, non solo non è ovvia, ma non è nemmeno attinta

dalla sperimentazione dell’opera d’arte in quanto opera d’arte, bensì,

[11] tutt’al più, dalla sperimentazione dell’opera d’arte in quanto cosa

fabbricata. Di conseguenza, la scomposizione secondo materia e forma

è applicabile all’opera sempre e in ogni momento, pur essendo al contempo

e altrettanto sicuramente non vera, se almeno in virtù di essa

dev’essere colto l’essere-opera dell’opera.

Se noi dunque contrassegnamo l’essere-opera dell’opera tramite un

secondo tratto essenziale, che denominiamo deposizione, allora con ciò

40

non può intendersi che essa sia costituita da una materia. Intendiamo

piuttosto questo, che l’opera, nel suo essere-opera, è de-ponente, e

questo in senso letterale. Ma che cosa depone qui l’opera in quanto

tale e in che modo essa è deponente? Così come l’opera si erge nel suo

mondo, altrettanto essa si risprofonda nella massività e nel pesantore

della pietra, nella durezza e nella lucentezza del metallo, nella compattezza

e nella duttilità del legno, nello sfavillio e nella cupezza del colore,

nella risonanza del suono e nella forza nominativa della parola.

Ma tutto questo è solamente e in primo luogo materia, che viene raccattata

da qualche parte, utilizzata e consumata nella fabbricazione, e

che successivamente scompare come mera materia a causa della messa

in forma? Tutto ciò non viene in luce per la prima volta nell’opera,

siano gravità, rilucenza, sfavillio, risonanza: materie che vengono

“domate”? O non è invece il gravare del masso e la lucentezza dei

metalli, lo stagliarsi in altezza e la duttilità dell’albero, la luce del giorno

e il buio della notte, il mugghiare delle onde e il bisbigliare tra i

rami? Come potremmo nominare tutto ciò? Di certo, non materia in

quanto mezzo per l’approntamento di qualcosa. L’unisono di quest’insuperabile

pienezza noi lo chiamiamo la terra e con ciò non intendiamo

una massa materiale sedimentata e nemmeno il globo planetario,

bensì l’unisono di mare e monti, di tempeste ed aria, di giorno e notte,

gli alberi e l’erba, l’aquila e il destriero. Questa terra – che cos’è? Ciò

che dispiega costante pienezza e purtuttavia si riprende sempre indietro

e trattiene ciò che è dispiegato. La pietra grava, mostra il suo pesantore

e proprio così si ritrae in se stessa; il colore si accende e resta

tuttavia chiuso; il suono risuona e tuttavia non emerge nell’aperto. Ciò

che emerge nell’aperto, invece, è esattamente questo chiudersi ed è

questa l’essenza della terra. Tutte le sue cose rifluiscono nel reciproco

unisono, eppure: in ognuna delle cose che si chiudono è il medesimo

non-conoscersi.

L’opera depone qui la terra, la pone come ciò che nell’aperto si

chiude. L’opera non è costituita dalla terra nel senso di una materia,

bensì tiene testa alla terra, sopporta il suo chiudersi. Mentre in tal guisa

l’opera mette in sé a disposizione la terra, essa ripone se stessa nella

terra come nel suo chiudentesi fondamento, sul quale essa viene a riposare;

un fondamento che, in quanto chiudentesi sempre e in modo

conforme all’essenza, è un fondo abissale. Entrambi i tratti essenziali

nell’essere-opera dell’opera, la disposizione in quanto ergentesi apertura

inaugurale di mondo e la deposizione in quanto ricompaginante

custodia della terra che si chiude non sono casualmente congiunti nell’opera

in quanto tale, ma stanno in un mutuo riferimento conforme

all’essenza. Nondimeno, entrambi i tratti sono quello che sono soltanto

mentre prendono fondo nell’autentico tratto fondamentale dell’essere-

opera, che adesso è necessario nominare.

41

[12] In quanto scorta che apre in modo inaugurale, il mondo che

l’opera, ergendosi, tiene in serbo si rivolge alla terra e non tollera alcunché

di chiuso, di ascoso. Ma nel suo chiudersi, la terra che l’opera,

deponendo, lascia serrare vuole essere e riprendere tutto in sé. Ma

proprio per questo, la terra non può fare a meno del mondo inaugurato,

se essa stessa deve risplendere nel pieno impeto del chiudersi e

del trattenere tutte le cose. E il mondo, daccapo, non può distaccarsi

dalla terra, se, in quanto scorta mondificante, esso deve lasciarsi pervenire

a qualcosa che si può condurre. Il mondo è contro la terra e la

terra contro il mondo. Essi sono nella contesa. Nondimeno, questa contesa

è l’intimità del loro controverso coappartenersi. Disponendo mondo

e deponendo terra, l’opera è al contempo la contenzione di questa

contesa. Contenzione non significa qui repressione e superamento della

contesa, bensì, al contrario, sopportare la contesa in quanto tale, anzi

essere questa stessa contesa. La contesa, però, non è soltanto la conseguenza

del fatto che mondo e terra, nella disposizione e nella deposizione,

vanno a cozzare l’uno contro l’altra, bensì, poiché l’opera nel

fondamento della sua determinazione è siffatta contenzione, è per questo

che essa accende e custodisce la contesa. Poiché il tratto fondamentale

dell’essere-opera è la contenzione, per questo disposizione e deposizione

sono i tratti essenziali di questo essere°. Ma perché l’opera, nel

fondamento del proprio essere, dev’essere siffatta contenzione? In che

cosa prende fondo l’essere-opera dell’opera, perché si appaghi in essa?

Questa è la domanda sull’origine dell’opera d’arte. Noi ce ne facciamo

carico non appena viene comprovato in modo sufficiente in che modo

l’opera, in quanto contenzione, è in primo luogo integralmente presso

essa stessa e in secondo luogo è autenticamente all’opera.

Come accade la contenzione di quella contesa? L’oscura asprezza

e l’attrattivo pesantore della terra, la sua irrisolta impellenza e il suo

risplendere, la sua impronunciata reticenza su tutte le cose, in una parola:

la dissipantesi durezza del suo chiudersi, viene sopportata, daccapo,

in una durezza. Ed è quella di avere limite nel taglio di contorno,

nel taglio verticale e nel taglio orizzontale. Mentre il chiudentesi deve

venire stagliato via nell’aperto, questo stesso stagliante deve farsi ritaglio,

limite che tratteggia e compagine. Qui, nel tratto fondamentale

dell’essere-opera in quanto contenzione, risiede il fondamento della

necessità di ciò che noi chiamiamo “forma”. Senza tener dietro ora più

da vicino all’origine della “forma” in quanto tale, domandiamo ciò che

è più urgente: che cosa viene infatti conquistato, contendendo, in

questa contenzione della contesa?

In tanto l’opera è contenzione, in quanto essa estatizza la terra,

aprendola in modo inaugurale, in un mondo. Questo stesso mondo, in

quanto scorta indiziante, non sospinge mai nella terra. Ma questa estatizzazione

che spinge dentro, sospinge innanzi l’opera e inaugura un

42

aperto. È il centro del margine entro cui la terra è chiusa in modo

conforme al mondo e il mondo è aperto in modo conforme alla terra.

L’opera fonda per la prima volta questo margine mentre lo apre in

modo inaugurale. Questo margine è l’apertità del Ci in cui le cose e gli

uomini giungono a stare, onde sostenerlo.

L’opera architettonica che, in quanto tempio, trattiene la figura del

Dio, al contempo, attraverso l’aperto porticato, la lascia stare fuori

nella regione che solo così è fondata come sacra. Ergendosi in un mondo

e ridando nella terra, il tempio apre in modo inaugurale il Ci in cui

un popolo perviene a se stesso, ossia alla compaginante potenza del

suo Dio. Attraverso l’opera, per la prima volta la terra si fa conforme

al mondo e [13], in quanto tale, si fa patria. Allo stesso tempo, nell’opera

in parole accadono il nominare e il dire attraverso i quali l’essere

delle cose viene alla parola per la prima volta e, insieme con il

dicibile, viene al mondo l’indicibile. In siffatto nominare di colui che

detta, ad un popolo vengono coniati in anticipo i suoi grandi concetti

dell’essente in totalità. Nell’opera del costruire e del dire e del dare

forma in senso plastico-figurativo viene conquistato, contendendo, il

Ci, il centro espandibile e radicato, in cui e a partire da cui un popolo

fonda il suo abitare storico – diviene cioè non-familiare nell’essente,

per fare sul serio con lo spaesante dell’essere.

L’essenza dell’essere-opera risiede nella contenzione della contesa

tra disposizione e deposizione, la quale conquista in sé, contendendo,

l’aperta intimità di terra e mondo.

Con questa determinazione essenziale dell’essere-opera dell’opera

viene guadagnato un presidio che rende possibile una decisione sulla

concezione tradizionale e corrente dell’opera d’arte. Questa sarebbe

rappresentazione di qualcosa. Di certo ci si è gradualmente allontanati

dall’opinione per cui l’opera sarebbe l’imitazione di qualcosa di sussistente,

nei termini di una copia e di un duplicato. Ma con ciò la concezione

dell’opera come rappresentazione non è in alcun modo superata,

bensì soltanto occultata; infatti, sia che l’opera venga assunta come

“farsi sensibile dell’invisibile”, sia, al contrario, come farsi simbolo

del visibile in un’immagine-sensibile, ogni volta, in simili determinazioni,

si insinua di soppiatto l’opinione pregiudiziale, accolta in modo

inquestionato, secondo cui la prestazione fondamentale dell’opera sarebbe

purtuttavia e ancora la rappresentazione di qualcosa.

L’erroneo di questa interpretazione dell’essere-opera discende dalla

stessa fonte della caratterizzazione affrettata e unilaterale dell’opera in

quanto cosa approntata. Secondo di essa, l’opera è innanzitutto, e ciò

significa sempre “autenticamente”, una materia formata, al pari di una

scarpa o di una scatola. Ma al contempo, dopotutto, l’opera dovrebbe

dire ampiamente, al di là di ciò che essa innanzitutto è, qualcosa

d’altro (ajllo ajgoreuvein); la cosa portata a termine viene messa anco43

ra insieme con qualcos’altro (sumbavllein). Allegoria e simbolo offrono

le rappresentazioni di base secondo le quali l’opera d’arte, nelle più

diverse declinazioni, viene determinata come una più elevata formazione

plastico-figurativa portata a termine.

Questa rappresentazione dell’opera d’arte, carente già nell’impostazione,

viene poi resa ancor più confusa per mezzo di determinazioni

che risalgono in modo analogo alla distinzione tra materia e forma. La

materia, cioè, viene equiparata al sensibile. All’interno del sensibile in

quanto “elemento dell’arte” vengono a rappresentazione il non-sensibile

e il sovrasensibile. Se qui la materia vale come il sensibile, allora

essa viene assunta come ciò che cade sotto i sensi, che è tale da divenire

accessibile attraverso i sensi e i loro apparati. Con ciò, sulla materia

stessa e sulla modalità della sua appartenenza all’essere-opera non

viene detto proprio nulla. E inoltre, questa determinazione d’accesso

è non vera rispetto alla presunta materia; infatti il gravare di una pietra,

l’opacità di un colore, timbro e fluidità di una costruzione linguistica

certamente non vengono sperimentati senza i sensi, ma mai e poi

mai attraverso di essi soltanto. Nella sua chiudentesi pienezza, ammesso

che simili caratterizzazioni dicano qualcosa, la terra è tanto sensibile

quanto non-sensibile.

[14] L’introduzione della determinazione del “sensibile” coglie altrettanto

poco qualcosa di essenziale dell’essere-opera dell’opera quanto

quella, che le si accompagna, del materiale. Nondimeno esse sono

entrambe, entro certi limiti, corrette e illuminanti. Fu così che la distinzione

tra sensibile e sovra-sensibile divenne ben presto il filo conduttore

per i molteplici tentativi di interpretazione allegorica e simbolica

dell’opera e dell’arte in generale. Già laddove la distinzione di materia

e forma diventa per la prima volta decisiva per ogni successiva posizione

occidentale nei confronti dell’essente, ossia in Platone, la materia,

intesa come il sensibile, viene ritenuta ciò che è inferiore di fronte

all’idea, intesa come ciò che è superiore e non-sensibile. Di quando

in quando, nella cerchia del pensiero cristiano, il sensibile inteso come

l’inferiore diventa persino l’ostile, che dev’essere superato. L’opera si

prende cura così dell’addomesticamento del sensibile e dell’innalzamento

verso ciò che è superiore e che in esso viene rappresentato. Sia

che questo discredito del sensibile venga adesso attuato in proprio,

oppure respinto, la rappresentazione di qualcosa continua a vigere come

la prestazione dell’opera. Tuttavia, l’opera non rappresenta nulla;

e questo per il semplice ed unico motivo che essa non ha nulla da dover

rappresentare. Infatti, mentre nella contenzione della contesa tra

terra e mondo l’opera inaugura entrambi secondo la modalità che le è

ogni volta propria, essa conquista contendendo, prima fra tutti, l’aperto,

ossia la radura alla cui luce l’essente in quanto tale viene incontro

come al primo giorno oppure – se divenuto quotidiano – si fa incon44

tro trasformato. L’opera non può rappresentare nulla perché, al fondo,

non ne va mai di un già stante ed oggettuale, posto, naturalmente,

che essa sia un’opera d’arte e non semplicemente una sua contraffazione.

L’opera non rappresenta mai, bensì dispone fuori – il mondo,

e depone qui – la terra; ed entrambe queste cose perché essa è contenzione

di quella contesa. In forza di ciò l’opera resta un’opera, è semplicemente

e soltanto essa stessa – e niente di più.

Ma allora in che modo è autentica l’opera? Che specie di realtà

essa possiede?

Ad onta di alcuni mutamenti, predomina ancora, fino ad oggi,

quell’interpretazione della realtà dell’opera d’arte alla quale Platone,

ancora una volta, ha dato l’avvio. In tale contesto, daccapo, divenne

decisiva quella determinazione preliminare dell’opera d’arte come cosa

fabbricata. Di contro a ciò che è cresciuto spontaneamente dal sussistente

e “dalla natura”, ciò che è approntato dalla mano dell’uomo è

ogni volta qualcosa di supplementare, a maggior ragione se esso riproduce

cose di natura; dal canto loro, infatti, queste sono già copie di

quei modelli che Platone chiama “idee”. Ciò che è approntato, e così

anche l’opera d’arte, diviene riproduzione di una copia di un modello.

E poiché le idee rappresentano l’essente autentico, ossia ciò che le

cose sono in verità, l’opera è solamente un’eco, in fondo autenticamente

irreale. Se a differenza di Platone si tenta di rendere reversibile

questo discredito della realtà dell’opera, allora, di contro alla costituzione

sensibile dell’opera stessa, si deve mettere in campo la circostanza

per cui essa rappresenterebbe, nonostante tutto, un contenuto nonsensibile

“spirituale”. Grazie a questa rappresentazione, dunque, l’opera

d’arte risulta volentieri “più ideale” e più spirituale delle cose tangibili

di tutti i giorni. Essa stacca l’ombra dal nostro ambito circoscritto

e tutt’intorno le aleggia “un afflato spirituale”. In tal modo, l’opera

d’arte si sottrae alla realtà propria di ciò che è sussistente. La cerchia

dell’opera è quella dell’[15]apparenza; questo non deve significare:

“dell’illusione grossolana”, come certo sembra ovvio pensare; infatti,

il blocco di marmo modellato di una statua ci dà ad intendere che

esso sia un corpo vivente, laddove, al contrario, esso è in verità soltanto

una gelida pietra. L’opera è un’apparenza perché non è essa stessa

quello che rappresenta, e tuttavia un’apparenza legittima, giacché nella

rappresentazione essa porta pur sempre alla luce un che di insensibilmente

spirituale.

In queste interpretazioni della realtà dell’opera d’arte, tale realtà

viene rinviata da un’irrealtà ad un’altra. Ora l’opera non è ancora così

reale come le cose sussistenti, ora non è più così reale come esse. Ogni

volta, l’essere-sussistenti delle cose quotidiane, inteso come la vera

realtà, resta ciò che è decisivo; commisurata ad esse, l’opera d’arte,

interpretata nell’uno o nell’altro modo, è sempre irreale. E nondime45

no è vero il contrario di tutto ciò. Il tempio che si erge su un promontorio

o in una valle dirupata, la statua che se ne sta lì nella regione

sacra, queste opere sono in mezzo a molto altro: terra e mare, sorgenti

e alberi, aquile e serpenti non solo non sono mai e in ogni caso semplicemente

sussistenti, ma presidiano il centro nel diradato margine

dell’apparire delle cose – essi sono più reali di ciascuna cosa, poiché

ciascuno di essi può annunciarsi per la prima volta come essente soltanto

nell’aperto, guadagnato, contendendo, in forza dell’opera. La

dettatura di Hölderlin – sebbene presagita a stento – ristà nella lingua

del nostro popolo più reale più di tutti i teatri, i film e le poesiole, più

reale degli edifici in cui ad esempio sono sistemate le librerie e le biblioteche,

in cui compaiono, tangibili, i volumi delle sue opere complete.

Più reale di tutto ciò è infatti la dettatura, dacché in essa è preparato

per i tedeschi il centro ancora inesplorato del loro mondo e

della loro terra, e tenute in serbo grandi decisioni.

Questa è davvero l’essenza più propria dell’essere-opera, che essa

non può mai venire commisurata a ciò che è di volta in volta sussistente

e a ciò che solo presuntivamente è autenticamente reale, bensì è

essa stessa il canone dell’essente e dell’inessente. Di conseguenza, non

esistono opere contemporanee che possano essere opere d’arte, ma

sono invece opere dell’arte soltanto quelle che sono all’opera in modo

tale da sollevare il proprio tempo all’altezza di sé e da trasformarlo.

Più reale di tutto l’essente consueto è infatti l’opera in quanto centro

inaugurale dell’esserci dell’esser-ci storico.

Quella solitudine di ogni opera d’arte è il segno che essa, nella

contenzione della contesa, si erge nel suo mondo nel ri-posare nella

sua terra. Il suo starsene lì è la contenuta discrezione del ritroso restarsene-

in-sé. Il che però non significa che l’opera si eccepisca dalla realtà

ordinaria; ciò è impossibile, giacché essa è già sospinta innanzi entro

tale realtà come il suo sovvertimento e la sua confutazione. Quanto

più tuttavia un’opera perviene a quella che si chiama “efficacia”, tanto

più essa deve restare isolata. Se le manca questa forza, allora essa non

è un’opera dell’arte.

Questi pochi accenni grossolani dovevano indicare alla lontana l’essere-

opera dell’opera. Era necessario [16] guadagnare con ciò un concetto

preliminare dell’opera d’arte in quanto opera. Esso deve farci da

guida se adesso vogliamo tentare di muovere un passo sulla via della

domanda intorno all’origine dell’opera d’arte.

II – L’arte come origine dell’opera

La caratterizzazione della contenzione della contesa tra mondo e

terra come tratto fondamentale nell’essere-opera dell’opera ci ha so46

spinto verso questa domanda: perché la contenzione è l’essenza dell’essere-

opera? Questa domanda, fin qui rimandata, sia ora presa in carico.

La risposta anticipatrice suona: l’essere-opera dell’opera possiede

il tratto fondamentale della contenzione, perché e nella misura in cui

l’opera è un’opera “dell”’arte. “L”’arte? Dove e in che modo essa è?

Esiste “l”’arte di per sé, in qualche tempo e da qualche parte? Nondimeno,

prima che domandiamo se e in che modo “l”’arte sia, è necessario

chiarire che cosa mai essa sia. La parola “arte” resta sempre e soltanto

un vuoto nome collettivo per tutto quello che si verifica all’interno

dell’industria dell’arte, oppure essa è semplicemente, soltanto e volta

per volta l’opera stessa? Nessuno dei due. La domanda: “che cosa

è l’arte?”, ora, non la poniamo più senz’altro nel vuoto. Mentre domandiamo:

in che cosa ha il suo fondamento l’essere-opera dell’opera?

noi cerchiamo Quello che nella contenzione accade autenticamente in

anticipo rispetto a sé. Si impone la domanda: che cosa è all’opera nell’opera,

al principio e alla fine? Mentre domandiamo in questo modo,

sappiamo che ci muoviamo nel circolo.

L’opera – permanendo presso di sé, recedendo in sé e consistendo

in tal guisa – apre in modo inaugurale il “Ci”, il centro dell’aperto

nella cui radura l’essente in quanto tale si spinge a stare e si mostra.

Questo aperto include in sé, unitariamente, l’irruzione di un mondo e

il chiudersi della terra. Colei che è come la chiudentesi entra nell’aperto.

Il mondo si fa inascoso e la terra si chiude, ma nell’aperto. E mentre

quest’intimità dell’aperto contenzioso tra il nascondentesi e il disascondentesi

accade, ciò che fin lì valeva come il reale si rende finalmente

manifesto come l’inessente. Emerge alla luce del giorno, ossia

nell’aperto, il fatto che fino ad ora predominavano coprimento e distorsione

e contraffazione dell’essente. Nella contenzione accade qualcosa

del genere: l’apertura inaugurale dell’apertità del contenzioso tra

inascoso ed ascoso, il venir fuori di coprimento e contraffazione, –

questo accadere in sé compaginato è l’accadere di ciò che chiamiamo

verità. L’essenza della verità, infatti, non consiste nella concordanza di

una proposizione con un fatto, bensì verità è questo accadere fondamentale

dell’apertura inaugurale dell’apertità dell’essente in quanto

tale. Di conseguenza, alla verità appartengono in misura essenziale

l’ascoso e il nascondersi (il mistero), così come il coprimento e la contraffazione

e la distorsione – la non-verità.

Nell’opera in quanto tale è all’opera l’accadere della verità, il che

significa che, nell’opera, la verità è posta in opera. La messa-in-opera

della verità, questa è l’essenza dell’arte. Verità, bisogna sempre considerare

questo, non vuol dire qui una qualsiasi verità, un singolo che di

vero, qualcosa come un pensiero e una proposizione, un’idea o un valore,

che all’incirca vengano “rappresentati” dall’opera, bensì vuol dire

l’essenza del vero, l’apertità di ogni aperto. Ovviamente, con ciò [17]

47

abbiamo guadagnato soltanto una prima indicazione dell’essenza dell’arte

a partire dall’essere-opera. Nell’arte, la verità accade come divenire-

manifesto dell’essente. Tuttavia, non risulta ancora comprovato

che e in che modo l’arte sia l’origine dell’opera. Chiamiamo origine, in

un concetto preliminare, quella specie di fondamento che rende necessario

l’essere-opera dell’opera nella sua necessità.

L’arte è il mettere-in-opera la verità. Allora le cose stanno così: da

una parte sussiste un’opera e dall’altra la verità. E questa viene trapiantata

in quella per mezzo dell’arte. Non è in alcun modo così: infatti

l’opera non sussiste prima della verità, né questa prima dell’opera, bensì:

mentre essa si fa opera, la verità accade. Tuttavia – e questa è la domanda

risolutiva – perché, affinché la verità accada, essa deve venire all’opera?

Se la verità viene all’opera per la prima volta con l’opera e nell’opera,

e non è dapprima sussistente da qualche parte, allora essa deve

divenire. Donde viene l’inaugurazione dell’apertità dell’essente? Forse,

diciamo così, dal nulla? In effetti è proprio così, se con il non-essente

si intende quel sussistente che, in forza dell’opera, viene per così

dire sovvertito e confutato come l’essente solo presuntivamente vero.

La verità non viene mai desunta da questo qualcosa di già sussistente.

Piuttosto, l’apertità dell’essente accade mentre viene progettata, dettata.

Tutta l’arte, nell’essenza, è dettatura, ossia il disserrare quell’aperto

nel quale Tutto è altro dal consueto. In forza del progetto dettante, il

consueto e quel che è durato fin qui si fanno inessenti. La dettatura

non è il randagio escogitare qualcosa a piacimento, non è un librarsi

nell’irreale. Ciò che la dettatura in quanto progetto, tenendo separato,

apre in modo inaugurale (progetta in anticipo), questo aperto, lascia

fare per la prima volta all’essente il suo ingresso e lo porta ad illuminazione.

La verità in quanto apertità accade nel progetto, nella dettatura. In

quanto mettere-in-opera la verità, l’arte è, in modo conforme all’essenza,

dettatura. E tuttavia, non è puro arbitrio ricondurre arte architettonica,

arte plastico-figurativa e arte musicale alla dettatura, alla poesia?

Sarebbe così se noi volessimo interpretare le sunnominate “arti”

a partire dall’arte della parola e come specie di questa. L’arte della

parola, la “poesia”, è di per sé tuttavia soltanto una modalità del progettare,

del dettare in questo senso determinato, ma ampio. Nonostante

ciò, l’opera in parole, la dettatura in senso stretto, possiede una posizione

eminente nell’insieme dell’arte. Negli artisti e nelle loro opere,

per esempio in opere architettoniche e plastico-figurative, si è soliti

identificare, di volta in volta, un “linguaggio delle forme”. Perché linguaggio,

per un’opera architettonica? Ora, linguaggio è senz’altro

“espressione”. E proprio questo, ossia “espressione”, è anche l’arte. E

perciò tutta l’arte è “linguaggio”. E poiché l’arte della parola si chiama

“dettatura”, tutta l’arte è parimenti dettatura. La determinazione

48

essenziale dell’arte in quanto dettatura non potrebbe essere fraintesa in

modo più grossolano che attraverso simili “spiegazioni”. La documentazione

della sua insostenibilità potrà illustrare il senso genuino della

proposizione secondo cui l’arte è dettatura.

Sia concesso, prima di tutto, che la determinazione dell’arte come

espressione possiede una sua correttezza. L’opinione per cui l’arte sarebbe

espressione è tanto inoppugnabile quanto l’enunciato: la motocicletta

è qualcosa che fa rumore. Qualsiasi tecnico scoppierebbe in

una risata [18] di fronte a una simile determinazione essenziale di questo

mezzo meccanico. Tuttavia, nessuno ride se da gran tempo si parla

a vanvera del fatto che l’arte sarebbe “espressione”. Certamente,

l’Acropoli è espressione dei greci e il Duomo di Norimberga è espressione

dei tedeschi e il “bèe” – è espressione della pecora. Altrettanto

certamente, l’opera d’arte è una particolare espressione, ossia un vero

e proprio “bèe” – probabilmente. Ma l’opera non è certo opera perché

è espressione, bensì essa è espressione perché è un’opera. Di conseguenza,

non soltanto la caratterizzazione dell’opera in termini di

espressione non contribuisce in nulla alla determinazione dell’essereopera,

ma inibisce già ogni domanda genuina su questo essere.

Ma questa caratterizzazione dell’arte come espressione, smisuratamente

corretta e ciò nondimeno inconsistente, non è valida neppure

per il linguaggio. Il linguaggio è certamente al servizio dell’intesa, della

discussione e dell’accordo. Ma esso non è soltanto, e non è in primo

luogo, un’espressione fonetica, oppure scritta, di ciò che dev’essere

comunicato, per l’appunto il vero e il non-vero, ossia l’essente manifesto

o contraffatto in quanto manifesto o contraffatto. Il linguaggio

non comunica soltanto il manifesto e nemmeno si limita a promuoverlo

ulteriormente, bensì, in primo luogo e autenticamente, l’essenza del

linguaggio è il sollevare per la prima volta l’essente in quanto essente

nell’aperto. Laddove nessun linguaggio, come in pietra, pianta e animale,

lì non è alcuna apertità dell’essente, e in tal senso neanche

un’apertità del non-essente e dell’inessente e del vuoto. Mentre il linguaggio

nomina le cose per la prima volta, siffatto nominare conduce

per la prima volta l’essente alla parola e all’apparire. Questo nominare

e dire è un progettare, nel che è indetto in quanto che cosa l’essente

è manifesto. Questo indire progettante è al contempo disdetta di ogni

opaco disordine. Il dire progettante è dettatura, la dizione del mondo

e della terra e con ciò del margine per la prossimità e la lontananza

degli Dèi. La lingua originaria è siffatta dizione in quanto dettatura

originaria di un popolo, in cui per esso sorge il suo mondo e comincia

a chiudersi la sua terra in quanto sua. La dettatura è l’essenza del

linguaggio e soltanto in conseguenza di ciò essa può anche farsi “espressione”.

La dettatura in senso stretto, la poesia, resta la configurazione

fondamentale dell’arte (dettatura in senso ampio), ma questo perché

49

nel dire dettante per l’esserci umano viene in generale progettato e reso

possesso l’aperto in cui l’essente in quanto essente perviene al dispiegamento

e alla custodia. Per contro, costruire e dare forma in senso

plastico-figurativo accadono sempre nel già aperto della dizione e del

dire, e proprio per questo non sono mai, in quanto vie dell’arte, linguaggio,

bensì un dettare ogni volta proprio.

Ma la determinazione dell’essenza della dettatura in quanto progettare

non esaurisce la sua essenza. Senza lo sguardo nell’essenza piena

della dettatura, il che vuol dire dell’arte, non cogliamo ancora il divenire

della verità. Soprattutto, non afferriamo concettualmente in che

misura qualcosa come l’opera sia necessaria per il divenire della verità.

(Il fondamento della necessità dell’opera è ogni volta il suo salto

d’origine.)

L’essenza piena della dettatura viene in luce nella proposizione:

dettatura – l’essenza dell’arte – è istituzione dell’essere. Non, dunque,

produzione dell’[19]essente. Ma che cosa significa essere, a differenza

dall’essente che noi, secondo di esso, nominiamo in tal modo? Questo

essente qui, l’organo, lo cogliamo, e lo cogliamo ad esempio nella sua

differenza rispetto a un gatto. L’organo è. Ma questo essere lo cogliamo

a fatica, sebbene siamo altrettanto certi del fatto che l’organo è e

non non è, così come sappiamo che esso è un organo e non un gatto.

Ma certo noi assumiamo più volentieri l’organo e il gatto e lasciamo

l’essere ai filosofi. E tuttavia, nonostante tutto questo grande buon

senso e la sua prossimità alla vita, cos’è a noi più prossimo dell’essere?

Cosa “sarebbero” l’organo e il gatto e tutto ciò che è consueto, senza

l’essere? Affinché però esso non resti una mera parola, il che, anche

ad onta di ogni incoglibilità, senz’altro non è, può servire come espediente

un’indicazione-guida: noi presagiamo l’essere e il suo concetto

se cogliamo quell’apertità, nominata sempre di nuovo, che appare nel

progetto dettante. L’essere è quel che cosa e in che modo l’essente,

volta per volta, è per noi manifesto ed ascoso. L’essente è di per sé

soltanto in forza di ciò che noi siamo essenzialmente per l’essere.

Immediatamente, per esempio in una proposizione, voler dire che

tipo di ente sia l’essere significa già disconoscerlo. Proprio perché l’essere

non può mai essere preliminarmente mostrato al modo di un qualunque

essente sussistente, proprio per questo c’è bisogno dell’istituzione

dell’essere.

Istituzione significa una triplicità in sé unitaria. Istituire è in primo

luogo un concedere, la libera donazione. Istituire è poi erigere, mettere

qualcosa su un fondamento, fondare. E istituire è infine fomentare

qualcosa, iniziare. Concessione, fondazione, inizio li dobbiamo ascoltare

distintamente e comprendere unitariamente, se nominiamo l’arte

in quanto dettatura dell’istituzione dell’essere.

Ora, in quanto concessione e libera donazione, istituzione vuol dire

50

proprio quel che già in precedenza fu introdotto come segno distintivo

della dettatura, il progettare l’aperto come l’“altrimenti dal consueto”.

Il progetto rilascia liberamente qualcosa che non soltanto non compare

mai a partire dal sussistente e dal consueto, ma nemmeno può mai

essere compensato dal sussistente. Il progetto è istituzione in quanto

concessione. Cosa significa ora istituzione in quanto fondazione e inizio,

e in che modo quel che con ciò è nominato coappartiene al progetto

in modo conforme all’essenza?

La verità in quanto apertità è sempre apertità del Ci in cui tutto

l’essente e l’inessente entra a stare e a partire da cui esso si riprende

in quanto chiudentesi. In tal modo, il “Ci” resta sempre radicato in

quest’oscuro abisso. Questo “Ci”, tuttavia – in che modo esso è? Chi

si fa carico di essere questo “Ci”? Risposta: l’uomo – non in quanto

singolo e nemmeno in quanto comunità. Entrambe queste modalità

dell’essere-uomo sono possibili soltanto se l’uomo si fa prima carico

del Ci, ovvero sta nel mezzo dell’essente in quanto essente e inessente,

ovvero sta per l’essere in quanto tale. Questo modo di essere il Ci,

noi lo chiamiamo la storia. Mentre l’uomo è il Ci, ossia è storico, egli

diviene un popolo. Nel progetto dettante, quell’“altrimenti dal consueto”

non è semplicemente inaugurato, ma invece, poiché l’apertità resta

sempre apertità del Ci, questa viene sempre progettata in anticipo

per il Ci o meglio per colui che è il Ci, il che significa che il progetto

dettante viene aggettato all’esser-ci storico. Il Ci nella sua [20] apertità

è soltanto se viene preso in carico e sostenuto a partire dall’estatizzazione

in ciò che è dato-in-compito e dalla custodia di ciò che è

dato-in-eredità, ossia la storia. Il Ci è soltanto se un popolo si fa carico

di essere il Ci, se diviene storico. Il popolo è già sempre gettato nel suo

Ci (Hölderlin, colui che detta). Ma questo aggetto è se esso, in modo

conforme all’essenza, è per l’appunto dettatura. Se però il progetto è

dettatura, allora l’aggetto non sarà qualcosa di solo arbitrariamente

preteso, ma sarà l’apertura inaugurale di quello in cui l’esserci, in

quanto storico, è già gettato. Ciò in cui un popolo è gettato è sempre

la terra, la sua terra, il chiudentesi fondamento su cui il Ci, gettato,

viene a riposare. Il progetto che conformemente all’essenza è aggetto

progetta soltanto se dall’ascoso fondamento trae fuori un aperto, se ciò

che in esso è dato-in-compito è dato-in-eredità nel fondamento in

quanto destinazione ascosa e per conseguenza da disascondere. Nel

progetto, quell’“altrimenti dal consueto” fa ingresso nell’aperto, ma un

tale altrimenti, al fondo, non è un che di estraneo, bensì soltanto il più

proprio, fin qui ascoso, dell’esserci storico. Il progetto viene dal nulla

nella misura in cui esso non discende dal consueto e dal fin qui vigente;

esso non viene dal nulla, perché esso, in quanto aggettante, trae

fuori l’ascosa e rattenuta destinazione, la posa in quanto fondamento

e la fonda in senso proprio. In quanto concedente progettare, l’istituire

51

è al contempo, essenzialmente, questo fondare. L’apertità può diventare

apertità del Ci, ossia la verità in quanto tale può accadere, soltanto

se il progetto è un progetto fondante. Ma fondante esso lo è mentre si

immischia in questo chiudentesi, la terra. Essa deve venire nell’aperto

e precisamente in quanto la chiudentesi, ossia nella sua controversia col

mondo progettato. Poiché l’arte in quanto dettatura è istituzione, progettante

fondare, essa deve istituire e statuire l’apertità, cioè la verità,

in modo tale che questa venga a stare in ciò che contende il contenzioso

tra terra e mondo – e questa è l’opera. La verità accade soltanto

in quanto apertità del Ci, essa viene all’opera soltanto nell’opera.

L’essenza dell’arte come istituzione dell’essere è il fondamento della

necessità dell’opera. L’essere dell’opera non consiste nel fatto che essa

è sussistente come essente prodotto, ma che essa si adopera in quanto

contenzione dell’apertità del Ci e lascia che gli uomini si facciano

carico dell’essere storicamente. (Perciò l’opera possiede senz’altro quel

tratto che la rende eminente, che essa, ergendosi, ristà in sé e si riprende

da tutto il solamente sussistente.)

L’essenza dell’arte è l’origine dell’opera d’arte. L’arte non è perché

esistono opere, bensì un’opera dev’essere se e nella misura in cui l’arte

è. Ma in che misura e perché l’arte deve essere? Essa non ha la sua

essenza nel dire la verità al modo del pensiero nel concetto, nel portarla

ad azione e a condotta nell’impresa essenziale, ma nel metterla in

opera. L’arte lascia scaturire la verità nel modo che le è proprio, essa

è un lasciar-scaturire, un’origine. Nel più intimo dell’essenza, l’arte è

origine e soltanto questo. Essa non è dapprima qualcosa d’altro e poi

anche origine, bensì, al contrario, poiché nell’essenza è un lasciar-scaturire

la verità, essa è al contempo il fondamento per la necessità dell’opera.

Origine e senso del fondamento per la possibilità e la neces[

21]sità dell’opera, l’arte lo è soltanto perché essa è origine in senso

“originario”.

Ma la verità, l’apertità del Ci, deve dunque accadere nella modalità

in cui essa scaturisce nell’origine in quanto arte? Certamente, infatti la

verità, in quanto apertità dell’essente, è sempre al contempo ascosità,

chiusità della terra. La verità è essenzialmente in modo conforme alla

terra. Poiché però l’opera necessitata a partire dall’arte – e soltanto essa

– pone originariamente la terra come chiudentesi nella contesa con il

mondo progettato, per questo motivo l’opera, ossia l’arte, è necessaria

entro l’accadere della verità. Il più ascoso fondamento per la necessità

dell’opera d’arte, la sua autentica origine, è l’essenza della verità stessa.

Se la verità deve accadere, ossia se la storia deve essere, allora dev’essere

un’opera, ossia dev’essere l’arte in quanto istituzione dell’essere.

Istituzione, infatti, è non soltanto progetto che rilascia liberamente

e nemmeno soltanto la fondazione che porta in superficie l’ascoso

fondamento, bensì, al contempo, è inizio. Essa fomenta l’origine. Però

52

un’origine può iniziare soltanto come salto. L’inizio dell’arte è immediato,

il che non esclude, anzi include il fatto che tale inizio sia quel

che è preparato da più lungo tempo e nel modo più nascosto. Il salto

in quanto inizio è sempre quel balzo in avanti in cui tutto quel che

è a venire viene già saltato oltre, sebbene non ancora abbracciato.

L’inizio non è mai conforme al principiante nel senso del primitivo,

che certo si chiama così perché non è in grado di licenziare da sé nulla

di ciò che viene dopo. Al contrario, l’inizio è sempre iniziale, non a

partire dalla scarsezza di ciò che è stato raggiunto, ma dalla pienezza

di quanto è in esso racchiuso. Così come ogni origine ha il proprio

inizio, ogni inizio ha il proprio cominciamento. È Quello presso cui,

come ciò che ci si trova davanti, l’inizio, sempre subitaneo, si leva. Al

fatto che il cominciamento sia sempre questo o quello appartiene

un’occasione. E l’occasione è sempre un caso, ossia casuale, nella luce

e nella cerchia dell’inizio che irrompe in quanto salto di un’origine,

tale, cioè, che al suo interno scaturisca la verità come apertità dell’essente.

Dove questo accade, inizia la storia. L’inizio dell’arte di un popolo

è sempre inizio della sua storia e lo stesso vale per la fine. Di

conseguenza, non esiste nessuna arte preistorica, giacché con l’arte è

già iniziata la storia e l’arte, di volta in volta, è o non è questa soltanto

in quanto storica. “L’arte” di per sé non esiste. Nondimeno, nella preistoria

c’è la pre-arte, in cui le formazioni plastico-figurative o sono

soltanto strumenti (utensili) oppure sono già opera d’arte. Dalla prearte

all’arte, però, un passaggio graduale si dà tanto poco quanto dalla

preistoria alla storia. Sempre vi è il salto dell’inizio, che si afferra concettualmente

proprio quando si desiste, in via di principio, dal volerlo

rendere comprensibile a partire dalla fine, ossia dal ricondurlo al già

noto. Ma il salto dell’origine resta secondo la sua essenza un mistero,

infatti l’origine è una modalità di quel fondamento la cui necessità noi

dobbiamo chiamare libertà.

L’essenza dell’arte in quanto mettere-in-opera la verità è l’origine

dell’opera d’arte. Questa origine è così originaria, e di conseguenza

così inaccessibile, che sempre noi – così anche in questi attraversamenti

di passaggio – restiamo [22] esposti all’inessenza dell’essenza. Quanto

più originaria è l’essenza di qualcosa, subito è tanto più aspra, accanto

ad essa, l’inessenza, con la sua insinuante impellenza e la sua

ostinatezza.

Il sapere dell’essenza è sapere soltanto in quanto decisione. Nel

domandare sull’arte vige la decisione: l’arte ci è essenziale, è un origine

e con ciò un istituente balzo in avanti nella nostra storia, un balzo in

avanti, oppure soltanto un supplemento che viene addotto come

“espressione” del sussistente e continua ad essere praticato per ornamento

e diletto, ricreazione ed eccitazione?

Siamo o non siamo, noi, in prossimità dell’essenza dell’arte in

53

quanto origine? E se non siamo in prossimità dell’origine, lo sappiamo

questo, oppure non lo sappiamo, e vagabondiamo soltanto all’interno

dell’industria dell’arte? Se non lo sappiamo, allora la prima cosa è che

lo innalziamo al sapere. Infatti, la chiarezza su chi noi siamo e su chi

noi non siamo è il salto decisivo nella prossimità dell’origine. Soltanto

siffatta prossimità garantisce un esserci storico fondato, in modo

conforme al vero, in quanto genuino radicamento al suolo su questa

terra. Infatti – e questa parola di Hölderlin possa offrire la conclusione:

«Difficilmente abbandona, | quel che abita presso l’origine, il luogo

» (Die Wanderung, vv. 18-19).

Aggiunte

(Note a margine non accolte nel testo)

1. (p. 19 ss.)

Mettere sul fondamento, perciò de-porre; la disposizione non [è] deposizione.

La contesa deve essere – essa deve cioè essere un’opera.

A partire dall’essenza dell’arte in quanto dettatura.

Quando deve essere un’opera? Allorché terra e mondo nel Ci aperto, allorché

verità.

2. (p. 20 ss.)

Perché un’opera deve essere? Perché l’essenza dell’arte è dettatura, ma il

progetto può essere soltanto in quanto fondante, deporre il fondamento e riporre

in questo l’aperto.

Perché, però, l’essenza dell’arte in quanto dettatura deve essere in questo

modo? Perché la dettatura è un accadere della verità e perché la verità «è» sempre

conforme alla terra; e precisamente, in modo tale che essa sia una modalità

in cui la verità scaturisce.

Arte, un origine della verità. Modalità fondamentale del suo divenire. L’arte

è storia. Impresa e pensiero. Assaltare.

L’arte [è] il fondamento, perché da sé, in modo conforme all’essenza, un

salto d’origine. Concetto preliminare solamente inautentico. Salto d’origine –

che tipo di fondamento?

1 «Avvertenza del Curatore e Amministratore del lascito manoscritto / L’origine dell’opera

d’arte apparve nell’autunno 1949 (Copyright 1950) in Sentieri interrotti (GA 5). / Le riflessioni

di Martin Heidegger sull’enigma dell’arte non accampavano la pretesa di risolvere l’enigma,

bensì di vederlo. La versione allora pubblicata includeva le tre conferenze tenute al Freies

Deutsches Hochstift di Francoforte sul Meno alla fine del 1936. Esse costituivano una

terza elaborazione del tema. / La seconda elaborazione era la versione della prima conferenza.

Quest’ultima fu tenuta il 13 novembre 1935 alla Kunstwissenschaftliche Gesellschaft di Friburgo

in Brisgovia. / Sulla base di una fotocopia della trascrizione dattilografa del manoscritto,

questa seconda elaborazione è stata pubblicata in Francia nel 1987 come edizione non

autorizzata in versione bilingue, senza tener conto della rielaborazione manoscritta di tale

trascrizione da parte di Martin Heidegger. / Qui viene presentata la prima stesura Dell’origine

dell’opera d’arte, finora inedita e ignota perché mai pronunciata in pubblico, il cui ma54

noscritto Martin Heidegger aveva conservato in una custodia assieme alle altre conferenze

vertenti sullo stesso tema. / Hermann Heidegger». – Fonte: M. Heidegger, Vom Ursprung des

Kunstwerkes. Erste Ausarbeitung [1931/32], in «Heidegger Studies», 5 (1989), pp. 5-22

[N.d.C.].

2 La testa di donna in pietra arenaria rossa, che Heidegger menziona qui come das Straßburger

“Bärbele”, è uno dei due frammenti superstiti dei busti che adornavano il portale della

Cancelleria di Strasburgo (vittima di incendi nel 1686 e nel 1870), eseguiti tra il 1463 e il 1464

dal maggior scultore d’origine olandese della seconda metà del XV secolo, Nicola da Leida

(Niclaus Gerhaerts van Leyden, Leida ca. 1430 – Vienna 1473), il quale esercitò una rilevante

influenza nei territori di lingua tedesca e fu attivo principalmente tra il 1462 e il 1473 (in particolare

a Treviri, Baden-Baden, Strasburgo, Costanza e Vienna), con realizzazioni sia in pietra

che in legno. Nonostante il soggetto della commissione fosse di carattere religioso (ma l’indagine

storiografica ha fornito nel tempo letture divergenti), nella coppia di busti raffiguranti

probabilmente un profeta e una sibilla la popolazione strasburghese dovette riconoscere le fattezze

di una coppia di illustri concittadini (il conte alchimista Giacomo di Lichtenberg, balìvo

della città, e la bella consorte Barbarina di Ottenheim, donde il soprannome della scultura,

impostosi già verso la fine del XVI secolo insieme a una pittoresca aneddotica che culminava

con l’imprigionamento della donna per motivi passionali). I tratti del volto, estremamente

vividi e mobili proprio nel loro rimando alla declinazione delle passioni, esemplificano

con grande incisività la transizione e la commistione tardo-gotica tra universo religioso e universo

profano. A giudicare dalla ricezione novellistica del tema in Germania (cfr. ad esempio

l’opera del romanziare nazionalsocialista di origini alsaziane O. Flake, Schön-Bärbel von Ottenheim,

Rembrandt, Berlin 1937 e quella della poetessa e scrittrice H. Maierheuser, Bärbel

von Ottenheim. Ein Roman vom Oberrhein, Steuben, Berlin 1939), nonché, soprattutto, dal

rilievo assunto dall’artista e dalla sua opera nella storiografia artistica tedesca degli anni ’30,

è lecito presumere che il riferimento heideggeriano, presente ancora nella versione della conferenza

friburghese del ’35, risultasse relativamente familiare ai suoi uditori. Per un rapido panorama

del dibattito scientifico in lingua tedesca fino ai primi anni ’40, cfr. A. R. Maier, Niclaus

Gerhaert von Leiden. Ein niederländer Plastiker des 15. Jahrhunderts. Seine Werke am

Oberrhein und in Österreich, Hertz, Straßburg 1910; O. Wertheimer, N. Gerhaert, Nicolaus

Gerhaert. Seine Kunst und seine Wirkung, Deutscher Verein für Kunstwissenschaft, Berlin

1929; H. Rott, Quellen und Forschungen zur südwestdeutschen und schweizerischen Kunstgeschichte

im 15. und 16. Jahrhundert, Strecker & Schroeder, Stuttgart 1933-38, I, pp. 82-88; H.

Jantzen, Das Bärbele des Nicolaus Gerhaert von Leyden, in «Städel-Jahrbuch», 9 (1935-36), pp.

5-12; E. zu Solms-Laubach, Bärbel von Ottenheim (Jahresgabe des Wissenschaftlichen Instituts

der Elsaß-Lothringer im Reich an der Universität Frankfurt), Diesterweg, Frankfurt am

Main 1936; F. Klimm, Der Kopf der Frauenbüste des Straßburger Kanzleiportals von Nicolaus

Gerhaert (1464) wiedergefunden (Das sogenannte Bärbele von Ottenheim), in «Oberrheinische

Kunst», 7 (1936), pp. 106-112; J. Walter, Fundstücke zur elsässischen Kunstgeschichte: Der

Versucher und die törichte Jungfrau am Straßburger Münster, ein Motiv aus der antiken Literatur.

Zur Deutung der »Schönen Bärbel«, in «Elsaß-Lothringisches Jahrbuch», 20 (1942), pp.

387-393; L. Fischel, Nicolaus Gerhaert und die Bildhauer der deutschen Spätgotik, Bruckmann,

München 1944. Per quale motivo, unico tra tutti i riferimenti ad opere d’arte, nel testo definitivo

delle conferenze Heidegger abbia lasciato cadere proprio questo, si lascia spiegare

soltanto per via di congetture. A prescindere dall’eventualità di una minore perspicuità del

rimando rispetto alle altre esemplificazioni (da Sofocle a Hölderlin, da Egina e Paestum a

Bamberga, cui si aggiungeranno, nella versione definitiva, un dipinto di Van Gogh e una breve

poesia di Mayer), tra le supposizioni più verosimili potrebbe figurare l’inopportunità del

richiamo alla città di Strasburgo nel quadro del secondo dopoguerra (in contrapposizione,

invece, alla sua valenza politica, plausibilmente messa in conto da Heidegger nel clima delle

rivendicazioni annessionistiche degli anni ’30), per via cioè della sua drammatica vicenda

storica. Restituita dalla Germania alla Francia nel 1918 con il trattato di Versailles, Strasburgo

fu rioccupata nel 1940 al termine di numerose tensioni e andò infine soggetta ai devastanti

bombardamenti americani in occasione della liberazione del 1944. – Villa Liebig (1896) di

Francoforte sul Meno fu trasformata in museo comunale tra il 1907 e il 1909. Da allora l’attuale

Liebighaus/Museum alter Plastik ospita una delle più importanti collezioni di sculture

a livello internazionale, che si estende dall’antichità egizia e greco-romana fino al periodo

barocco e neoclassico [N.d.C.].

Addenda

57

Sul superamento dell’estetica

Su “origine dell’opera d’arte” 1

Estetica

Il fatto storico che ogni estetica fondata secondo un pensiero (cfr.

Kant) faccia saltare se stessa è allo stesso tempo il sintomo infallibile

che, da un lato, questa interrogazione sull’arte non è contingente, ma

pure, dall’altro, che essa non costituisce l’essenziale.

Estetica

Esame dello stato sentimentale dell’uomo nella misura in cui il

“bello” sta in relazione a lui; in particolare, esame del bello (dell’arte)

nel suo riferimento allo stato sentimentale (in quanto producente e

fruente).

L’opera nella sua facciata superficiale – riferimento allo stato in

quanto oggetto contra-stante.

L’opera d’arte come oggetto per il soggetto. Fondamentale è la relazione-

soggetto-oggetto in quanto senziente (su verità ed essere e così

via è già deciso).

L’“estetica”

Verità e bellezza

Dove comincia? Forse laddove il bello viene fissato come qualcosa

di essenziale per l’arte? No!

Infatti, la questione è ancora come vengano concepiti il bello e la

bellezza. Fintanto che la bellezza in quanto configurazione della verità

è concepita nel senso originario (ajlhvqeia), fintanto, dunque, che la bellezza

[è] ancora più originaria della verità concepita nel senso della

proposizione e della correttezza e dell’asserzione e di ciò che è pensato

logicamente (cfr. Schiller, così come Kant), allora la bellezza resta riferita

in modo essenziale all’essere e al suo “disvelamento”, che in senso

greco significa fondazione.

58

Tuttavia, qui è il punto del non riuscire a fare fronte, connesso al

non venire a capo della verità in quanto ajlhvqeia.

Non appena la verità crolla, la bellezza non riesce più ad essere

afferrata concettualmente. Il che significa che Platone concepisce la

bellezza come ciò che estatizza ed incanta. Ma mentre la coglie e non

fonda l’ajlhvqeia, il bello si fa solo più ciò che incanta, ciò che al contempo,

in quanto [è] il di volta in volta sensibile, può ancora solo fare

segno verso l’essere autentico (ijdeva). Cfr. tevcnh trivtton ajpo; th'" ajlhqeiva"

– in quanto essere qua ijdeva!

Laddove il bello viene riferito per la prima volta a ciò che è conforme

a uno stato, e questo, in quanto tale, dev’essere promosso ("esperienza

vissuta"), in breve laddove ajlhvqeia – crollo in tutte le sue conseguenze,

e laddove tevcnh – non più irruzione della ajlhvqeia, proprio

lì prende avvio l’“estetico" – ben prima che dominino il concetto e la

parola.

Sul superamento dell’“estetica”

Questo non viene ancora affatto compiuto domandando dell’

opera” anziché degli “stati” del fare artistico e del fruire; decisivo è

invece: in che modo viene domandato, in senso decisivo, dell’opera e

in che modo del fare artistico e del custodire! Se e come l’“opera”, in

generale, venga afferrata concettualmente a partire dall’essenza della

verità e dell’essere.

Se con ciò l’“arte” venga eccepita, fin dal principio, dalla determinazione

di un “evento culturale” e dal “ruolo” di un’“espressione”-diuna-“

vita”e dalla valutazione in termini di dispiegamento-di-una-“personalità”

e simili.

Non soltanto eccepita, ma posta dentro la domanda fondamentale,

formulata al modo del pensiero, sul mutamento dell’essere° e sulla

fondazione dell’esser-ci.

“Estetica”

Ogni qual volta l’estetica viene afferrata in modo essenziale e creativo,

essa fa segno al di là di sé.

La meditazione originaria sull’arte non può trattenersi in essa e ciononostante

la riafferma sempre di nuovo e non perviene ad alcun superamento.

Perché? Perché le radici [sono] assai nel profondo. Essere e verità

– esser-ci – opera.

59

Il superamento dell’“estetica”

La nostra domanda sull’opera non verte sull’oggetto per il soggetto,

bensì sull’accadimento di verità attraverso il quale noi stessi (i soggetti)

veniamo trasformati. Fondazione dell’esser-ci.

“Estetica”

è quella meditazione sull’“arte” e sul “bello” in cui punto di partenza

e punto di arrivo non è l’opera, ma la conformità a uno stato dell’uomo

che fa e che fruisce. Tutta l’estetica assume l’opera d’arte come

oggetto e ciò significa in rapporto al soggetto, anche quando apparentemente

si prescinde dal soggetto.

Può essere altrimenti? È concesso prescindere dallo “stato”? Sì e

no.

È la domanda su come e dove l’essere-opera venga impostato, in

che modo i riferimenti fondamentali: opera – artisti – custodenti. Come

e dove, in generale, “arte”.

Così, adesso, crea ovunque confusione: relazione-soggetto-oggetto

– che cosa per soggettivo e soggetto e, corrispondentemente, per oggettivo

e oggetto.

Arte a partire dall’opera

L’opera non in quanto oggetto contra-stante (oggetto e perciò cosale

e perciò simbolo) del fare che genera e non del fruire, ma in quanto

accadimento della verità.

[…] 2

Arte ed estetica

Non è sufficiente concepire l’arte in senso estetico e poi integrare il

tutto attraverso l’extra-estetico, bensì l’essenza dell’arte stessa deve essere

trasformata dalle fondamenta a partire dalla necessità essenziale

(dell’inizio). Allora si rende superflua ogni integrazione extra-estetica.

Essa non ha più alcun sostegno.

Ma quel procedimento esteriore non solo non è sufficiente: esso è

sviante ed è un colpo a rovescio, giacché non fa sul serio con la necessità,

ma fa credere invece che questo accada.

60

1 «Avvertenza del Curatore / Le annotazioni qui pubblicate sono tratte da un convoluto

al quale Heidegger ha dato il titolo riassuntivo Sul superamento dell’estetica. Su «origine dell’opera

d’arte» 1934 ss. / Questa datazione indica che i lavori su L’origine dell’opera d’arte risalgono

cronologicamente più indietro rispetto all’anno 1935, da Heidegger menzionato nelle

indicazioni dell’autore in calce a Sentieri interrotti (GA 5), per la versione che egli aveva pronunciato

in pubblico alla Kunstwissenschaftliche Gesellschaft di Friburgo in Brisgovia il 13

novembre 1935, con il titolo Dell’origine dell’opera d’arte. Nel volume 5 (1989) degli “Heidegger

Studies” è stata pubblicata la prima stesura Dell’origine dell’opera d’arte, che rimonta

agli anni 1931 e 1932 e precede la conferenza friburghese contrassegnata da Heidegger

come seconda elaborazione. Le tre conferenze tenute il 17 e 24 novembre e il 4 dicembre del

1936 al Freies Deutsches Hochstift di Francoforte sul Meno, che in Sentieri interrotti sono

apparse sotto il titolo L’origine dell’opera d’arte, formano, secondo un’indicazione propria di

Heidegger, la terza elaborazione. / Ognuna delle annotazioni qui pubblicate, complete della

propria intitolazione, fu messa per iscritto da Heidegger su un foglio a parte. Ordinamento

e disposizione dei testi corrispondono al manoscritto originale. / Friedrich-Wilhelm von

Herrmann». – Fonte: M. Heidegger, Zur Überwindung der Aesthetik. Zu „Ursprung des Kunstwerkes“

[1934 ss.], in «Heidegger Studies», 6 (1990), pp. 5-7 [N.d.C.].

2 Indicazione del Curatore tedesco [N.d.C.].

61

L’inaggirabilità dell’esser-ci (“La necessità”)

L’arte nella sua necessarietà (La meditazione operante) 1

Lo stato-di-necessità “Contributi”

L’assenza di necessità [è] la necessità autentica. Lo stato-di-necessità

dell’assenza di necessità. Apparentemente, l’assenza di necessità

nasconde e mette da parte, attraverso la falsificazione, la disgregazionedella-

verità e la dimenticanza dell’essere. Dove ancora viene tenuto

fermo un che di vero (Chiese e visione del mondo), lì nessuna verità e

perciò niente di fondante e di facente in senso artistico – soltanto trasposizione

e sfruttamento. Dove questo vero è dato-in-compito, lì la perplessità

e il mero industriarsi e la distruzione. Ogni volta ci si attiene a

quel che è solamente un che di vero – attraverso il pretendere e il rinnegare

– e mai è l’esposizione alla verità. Che cosa si fa innanzi qui?

L’arte ventura come l’arte che fonda in senso artistico la necessità.

Che cosa sia la verità

Come può accadere la verità

1. Verità è non-verità

2. in quanto non-verità, contesa originaria

3. in quanto contesa originaria, installazione

4. in quanto installazione – possibilità dell’opera

5. possibilità dell’opera e (necessarietà dell’opera)

Esser-ci e salto d’origine “Contributi”

Il salto d’origine è al tempo stesso assalto del Ci e assalto dell’esserci

a partire dal fondamento, ossia fondando (cfr. l’arte come istituzione).

Estatizzazione nel Ci, ingresso nell’esser-ci.

In che misura all’esser-ci appartiene il salto d’origine. In quanto

tale, l’esser-ci rende necessario per la prima volta ciò che è conforme

al salto d’origine.

62

L’esser-ci stesso si essenzia come la necessità, pone essa stessa in

modo autentico e con ciò, per la prima volta, il Dove del Ci.

La meditazione sull’essenza dell’arte

La domanda essenziale è resa vieppiù necessaria esclusivamente dalla

singolarità della storia di volta in volta vigente (cfr. il “concetto” di

arte), dunque, propriamente, non quando tutto è al suo posto e dominabile

con lo sguardo e fondato, come se si potesse poi raccogliere in

un secondo tempo tutto ciò che è universalmente-comune e su questo

porre – l’indifferentemente-valido. La singolarità della nostra storia –

l’occidente.

La necessità dell’arte è ogni volta secondo la necessità della storia.

La nostra necessità – la storia in quanto tale – “l’ultimo capitolo della

storia del mondo”.

La meditazione operante sul mutamento essenziale dell’arte

In essa, strane e inaudite le nuove parole e i nuovi concetti; un altro

sfoggio di rappresentazioni e distinzioni abituali? Oppure una necessità!

La critica, tra l’altro, non è quella della teoria dell’arte e dell’estetica,

in generale nessuna critica con l’intento di disporre una nuova

opinione, bensì una rammemorazione estremamente essenziale, dalla

quale si sviluppi la necessarietà del dire altrimenti l’essenziale, non

perché tutto il fin qui vigente sia inservibile, ma perché esso ha perduto

il suo fondamento e terreno, ed è confuso, e perché fondamento e

terreno non sono più i nostri – e perché il nostro scopo è riconquistarli

di nuovo.

In che modo, senza che ancora sia mai stato prodotto un originario

sapere sull’opera d’arte? E questo soltanto perché mai ancora la

necessità – perché l’arte si essenzi in sé stessa – perché il sapere, dal

canto suo, [sia] fondato altrimenti – fuvsi" Deus – mondo.

E nonostante ciò, nulla di nuovo, bensì il medesimo, seppure nella

sua essenziantesi medesimezza, non come il sempre altro, il che significa

altrimenti contraffatto.

Di conseguenza, né una nuova teoria – né una mera opinione antica,

bensì la decisione nel domandare originario, che solo conquista il

riferimento nell’essere°.

Tanto strano e inaudito è il tutto per l’opinare abituale, quanto

necessario e semplice per il sapere rammemorato.

Tanto impellente la parvenza di una ricerca dell’inabituale, quanto

affidato al ritegno il tentativo di ridire soltanto il medesimo.

63

Se volessimo ridire il medesimo attraverso la ripetizione di ciò che

è stato detto e pensato in senso greco, medievale o moderno, non diremmo

il medesimo, ma [ci] 2 arrogheremmo il totalmente altro, l’a noi

estraneo e non più dominabile, parleremmo in nome e per conto di

una grandezza che ci è sottratta! Donde la necessità di dire altrimenti

il medesimo.

Meditazione e operatività dell’arte

Con essa, in modo originario, il mutamento essenziale. In che misura,

il mutamento? Mettere in opera la verità, non soltanto la bellezza,

neppure soltanto il vero, questo o quello, ciascuno relativo alla verità

– essenza del vero – e con ciò, per prima cosa, l’essenziarsi dell’essere;

fondazione dell’esser-ci (evento).

Sappiamo ciò che pretendiamo, quando vogliamo “l”’arte a tal

punto?

Sappiamo quale più alto sapere sia qui richiesto, e che noi, in esso,

diventiamo i richiedenti? Contro noi stessi? Siamo preparati a un siffatto

mutamento? L’arte ventura.

Esser-ci – arte ed opera – verità

Poiché e nella misura in cui l’uomo è storico, il suo essere è l’attendere

con cura all’esser-ci. Il “Ci” – essenziale la sua apertità, questa

però – in modo conforme alla terra.

Quindi, la necessità [è] l’opera. Ma se la verità accade, l’arte deve

essere sempre – o solo a determinate condizioni?

Quando? Quando il mutamento nell’essente in quanto oggetto

contra-stante – età moderna; se in generale l’essente è da aprire per la

prima volta in modo decisivo – antichità; se è da appropriare in un

essente in modo essenziale – medioevo.

Il volgersi della necessità, ogni volta diversa, secondo la necessità,

ossia secondo la storia, se la storia stessa è la necessità, possibilità dell’esser-

ci.

Arte e situazione

Non abbiamo alcuna arte (non sappiamo se l’abbiamo o non l’abbiamo

– apparenza!) – non sappiamo cosa “sia” arte – non sappiamo

se un giorno possa ancora essere l’arte – [non] 3 sappiamo se essa deve

essere.

64

Non abbiamo alcuna “arte”! Questo soltanto possiamo dire, se

non sappiamo.

Situazione e rimostranza

Mutamento essenziale dell’arte e sua necessarietà

Non abbiamo nessun grande artista che possa conferire “espressione”

all’esserci storico: “espressione”? Grande arte, grande?! Controdomanda:

possediamo coloro che sarebbero in grado di richiedere per sé

questa grande arte; di ricevere; di custodire; di tramutare? La forza

portante per la grande arte, del tras-porto. Perché non abbiamo nulla

di simile ad entrambi? Perché non abbiamo alcuna arte, perché

“l’arte” non è in modo essenziale e per ora, forse, non può essere.

Perché no? Perché alla fine ciò che conta è un mutamento essenziale

dell’arte, avanti e indietro nell’origine. E perché questo? La necessità

– l’inaggirabilità dell’esser-ci e in essa il volgersi alla necessità

dell’arte, ma come un preparare una decisione nella disponibilità all’evento.

Meditazione e operare – aggiunta e sottrazione. Come agire? Il sapere

essenziale? la lunga meditazione.

L’autentica necessarietà metafisica dell’arte

solo laddove l’essere essenziale e la sua verità [sono] in sé così profondi

e originari, che essi richiedono al contempo e propriamente un

farsi sensibili (installazione) e in esso si fanno avanti, in modo conforme

al vero, nel Ci; ad esempio, gli Dèi greci.

Soltanto se l’opera può e deve farsi carico della custodia di questa

verità dell’essere, essa è necessaria. Siffatta necessarietà va resa necessaria?

Come stanno le cose, laddove regna sovrana una piena dimenticanza

dell’essere e la verità è logorata nel vero e il sapere si aggira soltanto

tra calcolo e astuzia, non c’è alcuna peculiare necessarietà dell’opera

d’arte in generale, come gettare l’essere e l’apparire nel, e in tal modo

fondare il, Ci!

La necessarietà di opere d’arte

provenne soltanto, in modo conforme al vero, dalla necessità più intima

e più estrema che costringe all’arte.

Ciò significa però: per il mutamento essenziale dell’arte, non rap65

presentazione, ma fondazione della verità. Ma questo mutamento, soltanto

a partire dalla necessità dell’essere 3. E l’intera necessità dell’essere°

nella più alta necessità dell’assenza di necessità della questione

dell’essere.

A chi dev’essere detto tutto ciò?

La necessità

non discuterla, ma sopportarla! e per prima cosa comprenderla e perciò

un dire – ma in che modo! in modo tale che venga detta dal suo

elemento di necessarietà. Dunque, essenza della verità e sua installazione:

opera – mezzo – cosa. Un pensiero consapevolmente insistente!

La in-aggirabilità dell’esser-ci

appare in modo coperto come assenza di necessità della necessità, ossia

come la completa contraffazione della distruzione più estrema (essere°)

e più intima (verità).

L’essere-persi nel più incalzante affaccendamento, il vuoto e l’impotenza

– il senza vincolo nell’estremo e nel più intimo – richiedono

un’installazione essenziale della verità.

L’assenza di necessità: la necessità più velata nell’apparenza della

sua assenza.

“L’arte” e il sapere

La sua essenza? L’opera e coloro che traspongono, di volta in volta

la disponibilità e la preparazione di entrambi. Non abbiamo né le

opere essenziali né coloro che traspongono e la loro disponibilità,

neppure soltanto il sapere che illumina in anticipo circa la piena essenza

dell’arte. Situazione altra, nell’altro inizio! In ciò l’immediatezza, ma

tuttavia non ancora trovata la mediazione – non va desunta nell’imitare

l’aurorale – non estorcibile tramite una cieca regressione al “fare esperienze

vissute”. “Chi” fa esperienza vissuta, qui? e in che modo!

La necessità

mai più essenziale e mai più aspra, mai meno costrittiva, mai più

estranea una necessarietà, mai più impellente il sapere!

La decisa ma in quanto tale ascosa inaggirabilità dell’esser-ci – la

66

provvisoria esclusione dall’esser-ci – sperimentarla per la prima volta

nell’essere-escluso.

Incomparabilmente, e di conseguenza, strade e sentieri; soltanto

uno! il sapere – lunga meditazione!

Poiché la somma necessità [è] nel carattere dell’assenza di necessità,

perciò essa viene anche sommamente incrementata dal fatto di non

essere affatto sperimentata in quanto tale, giacché non sembra esserci.

Non solo tutto è al suo posto, ma di tutto ci si prende cura – industria

culturale.

La domanda sull’arte

(sta nel mirare al secondo inizio – superamento della dimenticanza

dell’essere e della distruzione della verità e dello sfruttamento della

verità)

Arte come salto d’origine – un fare artistico essenziale – da interpretare

storicamente.

E se ai giorni nostri esistesse una grande arte (cosa significa “esistesse”?),

cosa faremmo? La riconosceremmo? Siamo capaci di questo?

I conoscitori?! Gli estensori di visioni del mondo?! Ma la grande

arte dovrebbe costringerci a questo!

Solo così essa sarebbe grande? No, infatti la sua opera non è mai

causazione di un effetto immediato!

Non solo mancanza di comprensione, bensì esser-ci. Niente di guadagnato,

se molti l’avessero compreso: cosa significherebbe, infatti?

Grande non in forza della massa dell’approvazione. Trasformazione?

Di conseguenza le strade – di conseguenza la necessità? Assenza di

necessità in quanto necessità velata!

Trasformazione dei facenti, trasformazione del custodire, trasformazione

della trasposizione.

Il nostro inizio

L’arte e l’andare a segno dell’essere-sgomenti

Come può l’opera ad-operarsi in vista dello sgomento? Per i greci

c’era l’alba dell’essere-delimitato, ed essi conquistarono, lottando, la

chiarezza della configurazione.

Attraverso la configurazione (rimasta ancora innanzitutto, per noi,

un ordine prescritto) conquistiamo, lottando, l’oscuro e l’abissale, e di

qui nuovamente indietro nel combattimento, per la prima volta la disgrazia

e il decreto.

67

Arte – domanda fondamentale

L’eminente necessità del nostro secondo inizio, per questo arte in

quanto origine – il districamento dell’essere – opera iniziale.

Quale posizione essa può e deve avere, volta per volta, rispetto all’essere;

ora, nel secondo inizio; da non equiparare a nulla di precedente.

Passaggio dall’[arte] 4 simbolica alla classica in quanto lotta degli

Dèi; arte classica come creazione degli Dèi. In seguito – l’essere Deus

creator – trovato assolutamente fuori dall’arte, e più tardi – l’ens creatum

reso autonomo!

Ora: dimenticanza dell’essere – in generale, l’essere di nuovo domanda

– dunque la più profonda e ampia fenditura! – squarciare il

“Ci”.

Il nostro inizio

Arte ed essere – la nostra situazione

L’arte porta e conduce sulla strada dell’apertura inaugurale dell’essere.

Essa è il balzo in avanti della storia, ma può anche essere un

supplemento.

Essa costituisce il movimento fondamentale di un’epoca – oppure

sta al margine come copia ed espressione – oppure è una debole e incerta

mistura di entrambi.

In che modo! se ora la necessità è un secondo inizio – che cosa

deve divenire dunque l’arte, per la prima volta, nella sua essenza; incomparabile

rispetto a tutto ciò che precede.

Il nostro inizio

In quanto consistenza, l’opera è un costante trattenere-in-fuga gli

Dèi – di conseguenza la loro presenzialità – il loro indugio e la loro

prossimità.

Il nostro inizio

Giacché la necessità e la confusione (non-essere) e l’erranza (verità?),

per questo compito fondamentale [la] fondazione dell’essere.

Questa fondazione come consistenza dell’evento; un evento e l’arte.

Questa volta, preparare la fondazione dettatica attraverso il sapere conforme

al pensiero!

68

La necessità dell’assenza di necessità

L’assenza di necessità si vela nella dimenticanza dell’essere e nel

confuso a piacimento. Dimenticanza dell’essere e necessarietà dell’arte.

1 «Avvertenza del Curatore / Le annotazioni qui pubblicate, provenienti dal lascito manoscritto

di Martin Heidegger, formano un convoluto, la cui custodia porta il titolo riprodotto

qui per intero nella versione a stampa. Le 22 annotazioni, scritte su fogli in formato unificato

A5 e in parte A6 appartengono all’ambito dei tra stadi di elaborazione delle meditazioni

su l’“origine dell’opera d’arte”. La “prima stesura” Dell’origine dell’opera d’arte, risalente

agli anni 1931-32, è stata pubblicata per la prima volta da Hermann Heidegger in “Heidegger

Studies”, 5 (1989), pp. 5-22. La “seconda elaborazione”, dallo stesso titolo, è la conferenza

friburghese tenuta il 13 novembre 1935 alla Kunstwissenschaftliche Gesellschaft di Friburgo

in Brisgovia, che comparirà nel volume della sezione III della Gesamtausgabe in cui verranno

raccolte tutte le conferenze da Heidegger stesso non pubblicate, con l’inclusione delle versioni

difformi delle conferenze pubblicate. La “terza elaborazione” consiste nelle tre conferenze

che Heidegger ha tenuto, con il titolo leggermente modificato L’origine dell’opera d’arte, il 17

e 24 novembre e il 4 dicembre del 1936 al Freies Deutsches Hochstift di Francoforte sul

Meno e ha poi pubblicato nel 1949 (Copyright 1950) in Sentieri interrotti (GA 5). / Due delle

annotazioni stampate qui contengono il rimando specifico ai Contributi alla filosofia, nel cui

segmento 247 viene comunicato che «la domanda separata sull’‘origine dell’opera d’arte’ è

tratta da questo ambito e perciò è ad esso appartenente». Anche le annotazioni qui pubblicate

hanno il loro luogo nel pensiero dell’evento dei Contributi alla filosofia. Il loro significato

si mostra nell’essere pensieri che echeggiano, riprendono e dispiegano quelli del trattato

di Sentieri interrotti intitolato L’origine dell’opera d’arte. / Ordinamento e disposizione delle

singole annotazioni della versione a stampa sono in linea con il manoscritto originale. Occasionali

errori di ortografia sono stati tacitamente corretti. Le abbreviazioni si è potuto scioglierle

per esteso. Le interpolazioni del Curatore sono contrassegnate da parentesi quadre. /

Il Curatore ringrazia cordialmente l’Amministratore del lascito manoscritto, Dr. Hermann

Heidegger, per l’autorizzazione alla pubblicazione. / Friedrich-Wilhelm von Herrmann». –

Fonte: M. Heidegger, Die Unumgänglichkeit des Da-seins („Die Not“) und Die Kunst in ihrer

Notwendigkeit (Die bewirkende Besinnung) [1936 ss.], in «Heidegger Studies», 8 (1992), pp.

6-12 [N.d.C.].

2 Interpolazione del Curatore tedesco [N.d.C.].

3 Interpolazione del Curatore tedesco [N.d.C.].

4 Interpolazione del Curatore tedesco [N.d.C.].

69

Glossario

Il presente glossario raccoglie le voci filosoficamente più rilevanti nell’ambito

della proposta di traduzione adottata in questo volume. Essa si intende riferita

principalmente – tanto nella concatenazione dei termini quanto nei loro rimandi

interni – all’arco dei testi presi qui in esame. Dal momento che si è scelto di non

ricorrere in nessun caso all’esplicitazione parentetica di termini o espressioni originali,

il glossario mira sostanzialmente a facilitare l’esercizio di un controllo costante

sul testo italiano in rapporto all’originale. Le singole voci risultano ordinate

a partire dalla loro radice – espressa sempre, dove possibile, nella forma verbale

corrispondente (richiamata anche quando non sia espressamente presente nei testi),

alla quale vengono ricondotte tutte le forme verbali sostantivate –, cui infine tengono

dietro, nella scansione seguente, le forme sostantivali, le forme aggettivali e/

o avverbiali e infine i termini composti. Data la loro specifica rilevanza, soprattutto

i composti in cui compaiono Kunst (es. Kunstbetrieb, etc.) e Kultur sono stati

raggruppati sotto le voci omonime. Occasionalmente, subito dopo la resa di alcuni

termini sono state inserite in parentesi tonde osservazioni relative alla soluzione

proposta. Giacché, com’è fin troppo noto, Heidegger mira a far emergere le

potenzialità speculative dell’assonanza dall’intero sistema di relazioni sintagmatiche

e associative – desumendo il tutto più da un processo di sedimentazione linguistica

che di strutturazione cosciente dell’argomentazione –, si è cercato di riproporre

non tanto e non solo la peculiare evocatività del suo lessico, quanto piuttosto

il legame associativo dei termini utilizzati, non sempre e non necessariamente sostenuto

da un autentico legame etimologico scientificamente o storicamente accertato.

Secondo un’importanza crescente, si è tentato, nei limiti del possibile, di ricreare

i rimandi associativi di radici, prefissi, suffissi e confissi (cfr. su tutti la semantica

dello stellen), cercando di evitare sovrapposizioni nelle rese italiane e cercando

infine di rispettare la stabilità e la tendenziale univocità di queste stesse

rese.

beginnen: “cominciare”; Beginn: “cominciamento”.

bergen: “recondere” (il neologismo ha il vantaggio di coniugare, secondo

l’uso heideggeriano, il nascondere, il celare e l’occultare con il custodire in luogo

appartato e il preservare e proteggere innanzitutto alla vista, secondo un

senso esemplarmente sintetizzato dal sostantivo italiano “reconditorio”, designante

la piccola cavità al centro della mensa dell’altare nella quale vengono

appunto custodite le reliquie dei santi; più oltre si fa giocare l’arcaizzante

“ascondere” / “ascoso” per evitare di sovrapporre verbergen ed entbergen a

verhüllen, “velare”, ed enthüllen, “disvelare”); entbergen: “disascondere”; Ent70

bergung: “disascondimento”; unverborgen: “inascoso”; Unverborgenheit: “inascosità”;

verbergen: “nascondere”; Verbergung: “nascondimento”; verborgen: “ascoso”,

“nascosto”; Verborgenheit: “ascosità”.

bilden: “dare forma in senso plastico-figurativo”; Bild: “immagine”; Bildung:

“formazione”, “istruzione”; – Abbild: “copia”; Gebilde: “formazione plastico-figurativa”,

“creazione”; Sinnbild: “immagine simbolico-sensibile”; sinn-bildlich:

“secondo un’immagine simbolico-sensibile”; Standbild: “statua”; versinnbildlichen:

“simboleggiare in un’immagine-sensibile”; Versinnbildlichung: “farsi simbolo

in un’immagine-sensibile”; vorbilden: “prefigurare”; Vorbild: “modello”.

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absolute

November 12, 2009


Platone ed agli altri filosofi dell’antichità greca cheavrebbero tutti
attinto – secondo la ferma convinzione del mago rinascimentale – a
quella sacrasorgente. In realtà egli risaliva semplicemente
all’ambiente pagano del Cristianesimo primitivo,a quella religione del
mondo, fortemente imbevuta di influenze magiche e orientali, che
avevacostituito la versione gnostica della filosofia greca e il rifugio
per quei pagani stanchi cheandavano in cerca di una risposta ai
problemi della vita, diversa da quella offerta dai primicristiani, loro
contemporanei.Il dio egiziano Thoth, scriba degli dei e depositario
della sapienza, era stato identificato daigreci col dio Ermete e
dotato, in alcuni casi, dell’epiteto di « tre volte grande ». I Latini
feceropropria questa identificazione di Ermete o Mercurio con Thoth e
Cicerone spiega, nel Denatura deorum, che esisterono di fatto cinque
Mercuri: l’ultimo di loro, dopo aver ucciso Argo,era stato costretto a
recarsi esule in Egitto dove « dette agli Egiziani leggi e lettere » e
assunseil nome di Theuth o Thoth. Sotto il nome di Ermete Trismegisto
si sviluppò una vastaletteratura in lingua greca […].L’importanza della
figura mitica di Ermete Trismegisto nel movimento di rinascitapp.
139-41: «Un altro appunto da fare alla Yates (affiancabile ai suoi
tanti meriti) è quello di averenon solo cancellato la filosofia
naturale di Bruno in rapporto alla scienza, ma anche di non
aversottolineato le diverse qualità della tradizione ermetica».
L’ambiguità del termine «ermetismo»nelle sue diverse accezioni è
peraltro messa in evidenza da E. McMullin, Brunus and Copernicus,in
«Isis», marzo 1987, pp. 55-74, richiamato nel citato contributo di N.
Badaloni.
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Page 6 della magia è sottolineata da un particolare cui la Yates stessa
fa riferimentodefinendola «una situazione straordinaria»: la
traduzione, in pochi mesi nel corso del1463, del Corpus Hermeticum da
parte di Ficino, su espressa volontà di Cosimo de’Medici prima che si
affrontassero i testi platonici, disponibili nella loro totalità.
Lacopia del Corpus a disposizione di Ficino, «latore un monaco, uno di
quei moltiagenti impiegati da Cosimo de’ Medici per raccogliergli
manoscritti», non era deltutto completa, poiché priva dell’ultimo dei
quindici trattati di cui era costituital’opera11. «Benché i manoscritti
platonici fossero già tutti riuniti e aspettassero solo divenire
tradotti, Cosimo ordinò a Ficino di metterli da parte e di tradurre
subito l’operadi Ermete Trismegisto prima di affrontare i filosofi
greci». Secondo supposizionedella Yates, la ragione dell’ordine
potrebbe ravvisarsi in un desiderio da parte diCosimo, vicino alla
morte (lo coglierà nel 1464, l’anno dopo l’incaricocommissionato a
Ficino) di leggere per primo Ermete: «Cosimo e Ficino sapevano daiPadri
che Ermete Trismegisto era molto più antico di Platone»12.Egli dette
alla sua traduzione il titolo di Pimander: Nel Corpus Hermeticum questo
titolo siriferiva solo al primo trattato ma egli lo applicò a tutto il
Corpus o, piuttosto, ai quattordicitrattati contenuti nel suo
manoscritto. Ficino dedicò la traduzione a Cosimo e la dedica,
oargumentum, come egli lo chiama, rivela lo stato d’animo,
l’atteggiamento di profondo timorereverenziale e di stupore con cui
egli si era avvicinato a questa meravigliosa rivelazione diantica
sapienza egiziana.In queste affermazioni della storica inglese è tutto
l’interesse verso l’opera di ErmeteTrismegisto, destinata a segnare i
futuri studi in tema di magia e a condizionareancora per lungo tempo,
ben oltre la correzione di «un errore cronologico radicale»,la storia
del pensiero13.Pur non negando l’importanza rivestita dagli studi della
Yates, se da un lato èindiscutibile l’apporto delle sue ricerche alla
ricostruzione della biografia e dellaspeculazione bruniane, dall’altro
tale rilettura non è esente da critica: si pensi al ruoloche essa
attribuisce alla scoperta copernicana nei suoi echi bruniani,
secondariorispetto all’ermetismo.Diversamente, il nesso con il copernicanesimo
è punto importante dellaspeculazione del Bruno. Su questa linea
interpretativa, si pone A. Ingegno inErmetismo e oroscopo delle
religioni nello Spaccio bruniano, qui preoccupandosi di11 La traduzione
di Ficino fu condotta su un manoscritto che si trova nella Biblioteca
MediceaLaurenziana (Laurentianus, LXXI 33 (A)), ritrovato in Macedonia
e portato a Firenze. La notiziadell’incarico di tradurre per prima
l’opera di Ermete è data dallo stesso Ficino nella dedica aLorenzo de’
Medici del commento a Plotino: qui, egli descrive l’impulso dato agli
studi grecidall’arrivo in Firenze di Gemisto Pletone e di altri dotti
bizantini, e racconta come Cosimo gliavesse affidato il compito della
traduzione.12 F.A. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica,
cit., pp. 25-27.13 Ermete Trismegisto, secondo l’interpretazione
invalsa nella tradizione e fondata suLattanzio ed Agostino, appare
quale profeta dell’avvento del Cristianesimo: ma, se Lattanziogiudica
Ermete come uno tra i maggiori veggenti pagani, il quale aveva avuto il
merito diprevedere la venuta del Figlio o Sermo perfectus (la Yates
ricorda, a questo proposito, a pagina 20,che «la Parola perfetta, o
Sermo perfectus, è una traduzione corretta del titolo greco
originaledell’Asclepius»), Agostino non gli riconosce merito alcuno a
questo proposito, derivandone laprescienza degli avvenimenti futuri
dalla venerazione da lui praticata ai demoni.
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Page 7 ricondurre il significato stesso dell’ermetismo bruniano nel suo
copernicanesimo14. Etale interpretazione è richiamata da Carlo Monti
nella Introduzione alle Opere latinedi Giordano Bruno15.La complessità
dei motivi convergenti nella cosmologia bruniana è comunque
fuoridiscussione e può trovare ulteriori conferme sia nella struttura
astrologica dello Spaccio inriferimento alla dottrina dell’oroscopo
delle religioni sia nel nesso tra religione egizia ecopernicanesimo
indicato nel De immenso, dove si pone la coincidenza tra
abbandonodell’antica cosmologia prearisotelica e il tramonto della
religione egizia, secondo la profeziadell’Asclepio. La nuova
cosmologia, infatti, si pone quale mezzo per il sorgere di un
rinnovatoconcetto di Divino simboleggiato appunto dal mutamento della
natura. L’influenzadell’ermetismo, dunque, va colta proprio in questa
nuova concezione della natura intesa comeesperienza del Divino e tale
concezione della natura è comprensibile solo alla luce di unanuova
cosmologia cui Bruno arriva, appunto, attraverso il copernicanesimo.E
non si dimentichi come qualche decennio prima della Yates fosse già il
Corsano adare nuova linfa all’indagine storiografica: soprattutto
nell’Ottocento, infatti, le operedi Bruno erano state esaminate in
maniera non disinteressata, creando e portando adesasperazione il mito
di un Bruno di matrice laica e liberale. E da qui Corsanoprocedeva, non
limitandosi tuttavia al solo dato biografico, bensì valorizzando
perprimo in modo organico le opere magiche di Bruno16. Il problema è
strettamenteintrecciato con la comprensione in chiave critica dell’evo
moderno: qui, l’attenzioneper le problematiche magica ed ermetica è
parte costitutiva di un nuovo modo diintendere ragione ed insieme
natura ed esperienza umana nell’epoca moderna. Di quila (ri-)scoperta
delle opere inedite di Bruno.Si è trattato di un lungo processo, nel
quale il libro pubblicato da Antonio Corsano nel 1940ha avuto un
rilievo decisivo per due motivi: ha sottolineato, anzitutto, la
dimensioneantiumanistica della «nova filosofia»; e ha, poi, utilizzato,
e valorizzato per la prima volta inmodo organico, le opere magiche di
Bruno, sia per ricostruirne un momento cruciale della vita,sia per
mettere in luce l’aspirazione strutturalmente pratica e «riformatrice»
del suo pensiero.[…] Ponendosi in un crocevia nel quale si intrecciano,
e si congiungono, motivi sia di ordinefilosofico sia di ordine
biografico, Corsano affronta un problema fondamentale dellastoriografia
bruniana, interrogandosi sulle ragioni che spinsero Bruno a tornare in
Italia. Ed èsu questo punto che fa agire le opere magiche: Bruno –
questa è la sua tesi – torna in Italiaavendo in mente un preciso
progetto di «riforma universale» del mondo. Tutt’altro che ungesto
improvviso, o incomprensibile, quella scelta è connessa, per la prima
volta, ad ungiudizio preciso sul proprio tempo storico, con particolare
attenzione, anzitutto, al significatofilosofico-storico del successo in
Francia di Enrico di Navarra. E, in questo quadro, è
connessal’individuazione di un ruolo specifico che Bruno avrebbe potuto
svolgere nei nuovi tempi chesi stavano schiudendo, facendosi – proprio
in virtù delle sue capacità di mago, di «vincolatore»degli animi –
«capitano» di popoli e promotore dell’universale renovatio mundi.
Alcuni14 A. Ingegno, Ermetismo e oroscopo delle religioni nello Spaccio
bruniano, « Rinascimento», 7, 1967, p. 169.15 C. Monti, Introduzione,
in Giordano Bruno, Opere latine, a cura di C. Monti, UTET,collana
Classici della Filosofia (collezione diretta da Nicola Abbagnano),
Torino, 1980, p. 62.L’edizione contiene: Il triplice minimo e la
misura; La monade, il numero e la figura; L’immensoe gli
innumerevoli.16 A. Corsano, Il pensiero di Giordano Bruno nel suo
svolgimento storico, Firenze, Sansoni,1940. L’opera è ora disponibile
per i tipi della Congedo Editore, Lecce, 2002. L’edizione cui sifarà
riferimento in seguito è quella del 1940, edita da Sansoni.
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Page 8 decenni prima della Yates, Corsano, prendendo le mosse dalle
opere magiche, risponde dunqueefficacemente ad una domanda alla quale
la storiografia dell’Ottocento, di matrice laica eliberale, non aveva
saputo dare una risposta persuasiva e convincente.E si sottolinei in
particolare quanto segue:Nel suo lavoro Corsano […] dà forte rilievo al
De magia, alle Theses de magia, al Devinculis, valorizzando il tema del
«vincolo», del «vincolare», ed osservando, acutamente, comein Bruno
«domini la preoccupazione del dominio etico-sociale, del civiliter
vincire», nellaquale individua anzi il Leitmotiv di tutte le opere
magiche. E su questo sfondo di problemimostra quale peso abbiano,
secondo Bruno, la «credulitas», la «fides», la quale appunto perquesto
è «vinculum magnum et vinculum vinculorum», cui seguono «veluti filiae»
tutte le altreforze dello spirito umano – da «quelle più alte, ‘spes,
amor, religio’ alle più torbide e irruentima anche potenti e operose
passioni». Del resto, e Corsano lo sottolinea, lo stesso Cristo
ebbebisogno della «credulitas» per ottenere miracoli. Se essa fosse
mancata, il miracolo sarebbestato impossibile: «Neque enim credibile
est nec credendum proponitur quod omnes praetercredentes etiam sanitati
restituerit».Il passo, citato dall’Introduzione di Michele Ciliberto
alle Opere Magiche, mette inparticolare risalto il contributo di
Corsano agli studi bruniani, soprattutto se lo siconsidera insieme alla
fondamentale interpretazione della Yates, la quale «trasformale opere
magiche prima tenute al margine, nella ‘chiave di volta’ di tutta
l’esperienzaumana, intellettuale e filosofica del Nolano»17.Con il suo
Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Frances A. Yates collocadunque
il Nolano nel solco dell’ermetismo: «Giordano Bruno, come mago, aveva
unasua missione religiosa ermetica. Egli è un enfant terrible fra gli
ermetici religiosi, maè pur sempre un ermetico religioso. Se lo si
colloca in questo contesto, Bruno vieneformalmente inserito nei
movimenti del suo secolo»18.Ciò che, tuttavia, distingue in modo
evidente la visione di Corsano da quella chesarà in seguito proposta
dalla storica inglese è l’enfasi posta dal primosull’importanza della
professione (se pur non ristretta entro gli argini della
originariaformulazione matematica dei principi) copernicana, superata
nel momento stessodella sua adozione in virtù di una visione della
teoria in senso più filosofico. La Yatesè, infatti, tesa
all’affermazione della teoria di un Bruno in chiave magica, tale
darelegare gli aspetti più propriamente innovativi insiti nella teoria
copernicano-bruniana in secondo piano, quasi a cornice del quadro
magico-ermetico propugnato.Sebbene sia stata trascurata
l’importantissima circostanza del rapporto di Bruno conl’ermetismo,
alcuni studiosi italiani hanno da tempo riconosciuto che la magia
occupa un ruoloconsiderevole nel pensiero di Bruno. Il Corsano fissò la
sua attenzione su questo tema in unlibro pubblicato nel 1940 ed in
seguito osservò che dietro il pensiero magico di Bruno sipossono
rintracciare alcuni elementi di un disegno di riforma religiosa.
Sviluppando le idee delCorsano sulla magia e sulla riforma bruniane, il
Firpo ha ipotizzato una connessione fra l’una el’altra, nel senso che
Bruno ritenesse di poter realizzare la sua riforma grazie alla magia.17
M. Ciliberto, Introduzione, in Giordano Bruno, Opere Magiche, Milano,
Adelphi Edizioni,2000, pp. XIX-XXII. L’edizione, diretta da Michele
Ciliberto, è a cura di Simonetta Bassi,Elisabetta Scapparone, Nicoletta
Tirinnanzi: si tratta di una recente pubblicazione della opere atema
magico di Bruno, promossa dal Comitato Nazionale per le celebrazioni di
Giordano Brunonel quarto centenario della morte, in collaborazione con
l’Istituto Nazionale di Studi sulRinascimento.18 F. A. Yates, Giordano
Bruno e la tradizione ermetica, cit., p. 255.
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Page 9 La Yates prosegue rilevando in nota come «sia Corsano che Firpo
si occupanodell’ultimo periodo di Bruno e del suo ritorno in Italia
nelle vesti di magicoriformatore» e come a Corsano sia «sfuggito che
tutte le opere di Bruno sono pienefin dall’inizio di elementi
magici»19.Ancora, occorre porre in evidenza come l’atteggiamento della
studiosa ingleseporti con sé la conseguenza di lasciare a margine gli
aspetti copernicani e più nel vivofilosofici del pensatore, sì da
ridurre tutto il pensiero dello stesso nel recinto
dell’artemagico-cabalistica. Vera cifra della lettura del Bruno
compiuta secondo le lineeseguite dalla Yates è la radicalizzazione di
motivi ficiniani e pichiani, rispettivamentedi una rivalorizzazione e
rivalutazione moderna della magia naturalis nel primo (manon già
teorizzazione di motivi nuovi) e della cabala nel secondo. Si tratta,
infine, diuna « reductio ad magicum » della speculazione bruniana: se
da un lato essa ha ilmerito di riabilitare il Bruno nella sua identità
di mago, dall’altro ridefinisce,riducendola, l’identità del
filosofo20.Inoltre, nel lavoro della Yates non è riconosciuto ruolo
centrale alle opere a temamagico, De magia e De vinculis in genere in
primo luogo, per fare spazio aconsiderazioni svolte intorno anzitutto
alla Cena delle ceneri, allo Spaccio dellabestia trionfante, agli
Eroici furori. L’opera stessa nasce originariamente da unatraduzione
inglese alla Cena, che avrebbe poi spinto la storica inglese a studi
piùapprofonditi21.Il nuovo approccio ai testi bruniani a carattere
magico, iniziato con Corsano, è conil fondamentale lavoro della Yates
amplificato in opere non immediatamentemagiche, e per questo il motivo
è reso più forte. Tuttavia, ribadiamo come taliconsiderazioni vadano
chiarite alla luce degli esiti cui gli assunti della Yatesriteniamo
conducano.Con diretto riferimento al De vinculis in genere, il Corsano
ha dimostratol’importanza di quest’opera, insieme con il De magia, nel
chiarire i motivi cheportarono Bruno a ritornare in Italia.19 F. A.
Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, cit., p. 255, nota 84:
per ilriferimento a Corsano, si veda Il pensiero di Giordano Bruno nel
suo svolgimento storico, cit., pp.281 sgg. Con riguardo alla posizione
di Firpo, la Yates fa chiaro riferimento all’analisi da luicompiuta sui
motivi che ricondussero il Nolano in Italia: il riferimento testuale è
a Il processo diGiordano Bruno, Napoli, «Quaderni della Rivista storica
italiana», 1949, pp. 10 sgg. Nella nuovaedizione dell’opera, a cura di
Diego Quaglioni per i tipi della Salerno Editrice, vedasi il capitolo
II,Il ritorno in Italia del Bruno (Agosto 1591), pp. 9 sgg.20 Un tale
esito dell’immagine di Bruno presente alla Yates è evidenziato da M.
Ciliberto,Introduzione, in Giordano Bruno, Opere magiche, cit., p. XXI,
quale rovesciamento paradossaledell’atteggiamento che aveva
caratterizzato gli studiosi precedenti a Corsano, i quali
avevanotralasciato gli aspetti e le opere magiche, giacché «difficili
da situare nel quadro delleinterpretazioni ‘moderne’ del Nolano» quando
non addirittura «incomprensibili». A quest’ultimoproposito, basti qui
ricordare i nomi di Gentile e di Tocco, e per quest’ultimo le
considerazioniesposte nello includere le opere magiche all’interno
dell’edizione nazionale di fine Ottocento delleOpera latine cona, a
fine di completezza e non per un valore positivo ad esse
riconosciuto,ché anzi la presenza delle stesse risultava scomoda ed
imbarazzante per chi intendesse il Nolanonelle sue vesti di moderno
pensatore.21 F.A Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, cit.,
p. 6; Ead. Giordano Bruno e lacultura europea del Rinascimento,
Roma-Bari, Biblioteca Universale Laterza, 1994.
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Page 10 Attraverso di esse egli ha messo in luce come l’antico
atteggiamento strettamente teoreticodel Bruno venisse via via
sopraffatto da un crescente impulso all’azione, quasi che
finalmenteconseguita chiarificazione dei propri concetti, depositata
nei poemi francofortesi, gli imponessedi uscire dall’astratta sfera
speculativa per diffondere ed imporre la riconosciuta verità.
Ilcostante fervore didattico del Bruno segna appunto il ponte di
passaggio tra il pensiero el’azione, la teoria e la prassi. Nella
propria filosofia il Nolano era venuto riconoscendo semprepiù
distintamente un valore etico-sociale, una significazione di annunzio
evangelico e diuniversale rigenerazione; l’insegnamento diveniva
predicazione e apostolato, e la sua opera dirinnovatore della scienza –
tollerata, se non applaudita in Germania – si espandeva inun’azione di
riforma religiosa, che le Chiese protestanti mostravano di reprimere
conintransigenza non meno rigorosa di quella che lo stesso impulso
avrebbe trovato in paesecattolico. La religione che Bruno propugna è
una religione intellettualistica, naturalistica,semplificata, spoglia
di dommatismi, al fine di sgombrare il terreno da ogni appiglio
alledisquisizioni ed alle eresie; un deismo fondato sulla carità
concorde degli uomini, che più nullaha di comune con la dottrina
rivelata del cristianesimo. Risolta in questa visione etico-religiosala
sua tormentosa indagine dialettica e cosmologica, Bruno è trascinato
all’azione e concepisceil proposito di ridurre tutto il mondo ad una
religione, traendone per sé, di conseguenza,quell’autorità politica, di
cui la propria dottrina lo fa degno.Citiamo da Firpo il passo nel
quale, nel solco delle considerazioni di Corsano, egliriconosce nei
motivi che condussero il Nolano in Italia quelli propri di una
decisivasvolta filosofica, che doveva aver mosso quegli a porsi a «
capitano », passandodal campo della speculazione teoretica a quello
della pratica22.La questione è meglio chiarita alla luce della terza
denuncia di Giovanni Mocenigo,nella sua deposizione del 29 maggio
159223:Molto reverendo Padre et signor mio osservandissimo, perché la
Paternità Vostra moltoreverenda m’ha imposto ch’io vada molto ben
pensando a tutto quello che io havessi udito daGiordano Bruno, che
facesse contro la nostra fede catholica, mi son ricordato d’havergli
sentitodire, oltre le cose già scritte a Vostra Paternità molto
reverenda, che il proceder che usa adessola Chiesa, non è quello che
usavano gl’apostoli, perché quelli con le predicationi et congl’esmpi
di buona vita convertivano la gente, ma che hora chi non vuol esser
catholico, bisognache provi il castigo et la pena, perché si usa la
forza et non l’amore; che questo mondo nonpoteva durar così, perché non
v’era se non ignoranza, et niuna religione che fosse buona; che
lacattolica gli piaceva ben più delle altre, ma che questa ancora havea
bisogno di gran regole; etche non stava bene così, ma che presto presto
il mondo haverebbe veduto una riforma generaledi se stesso, perché era
impossibile che durassero tante corruttele; et che sperava gran cose su
’lre di Navara, et che però voleva afrettarsi a metter in luce le sue
opere et farsi credito perquesta via, perché, quando fosse stato tempo,
voleva esser capitano.E nel quadro della riforma ermetica delineata
dalla Yates «anche questeaffermazioni concordano perfettamente con la
dottrina esposta nello Spaccio»,essendo manifestazione della «missione
religiosa ermetica» del Bruno e del concettodelineato in Firpo di una
«connessione» tra magia e riforma religiosa in Bruno24.22 L. Firpo, Il
processo di Giordano Bruno, a cura di D. Quaglioni, cit, pp. 9-10. Si
tratta delcapitolo II, Il ritorno in Italia del Bruno (Agosto 1591),
nel quale lo storico torinese affronta la«questione preliminare» dei
motivi del ritorno in patria del filosofo, «problema di sommo
rilievo,perché quello stato d’animo iniziale ha certamente determinato
tutta la successiva condottaprocessuale del Nolano».23 Ibid., Doc. 10,
pp. 157-58.24 F. A. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica,
cit., p. 255. La Yates riferisce leparole della suvvista terza denuncia
del Mocenigo, traendole dai Documenti della vita di Giordano
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Page 11 E forse proprio un’intenzione del genere può costituire la
molla segreta dello Spaccio dellabestia trionfante: il mago opererebbe
cioè sulle immagini celesti dalle quali dipendono tutte lecose
inferiori, per far sì che la sua riforma possa attuarsi.Presentiamo
adesso alcune considerazioni svolte da Firpo, che rivestono
quiparticolare importanza25:Le pagine che precedono rappresentano un
tentativo di lettura integrale ed obbiettiva deidocumenti e le
deduzioni ultime che se ne possono trarre sembrano recare finalmente un
po’ diluce sul problema nucleare del processo bruniano: il motivo
centrale della condanna, ossia –trovando la condanna piena
giustificazione legale nell’impenitenza – il motivo della
pertinaceostinazione suprema. Tre spiegazioni sono state abbozzate e
con varie argomentazioni difese:la fedeltà indefettibile al proprio
credo filosofico; la constatazione desolata del fallimentod’ogni
aspirazione alla riforma religiosa; una frattura d’ordine
psicologico-sentimentale fatta èverso i giudici, di cupa disperazione,
di indurato orgoglio, financo di follia.[…] D’altronde, fin dai primi
interrogatori, il Bruno aveva sottolineato la propria esitazionedi
fronte al carattere «ineffabile» di quei dati della rivelazione, aveva
confessato la riluttanzadella ragione nel piegarsi al mistero, mai
s’era accinto a scalzare razionalisticamente quellepietre angolari
dell’intera religione cristiana. Certo dunque si è che la lunga
disputa, alterna dicontestazioni, di arrendevolezze e di ripulse, che
si disnoda nel corso del 1599, ebbe il suoterreno precipuo nel cuore
della filosofia bruniana, sopra le tesi dell’infinita creazione
senzatempo, dell’animazione universale e del moto terrestre. Di fronte
alle accuse disciplinari oteologiche ben noto ci è il contegno del
Bruno: negare il negabile, attenuare l’incerto, invocareil perdono per
le colpe provate; nel campo filosofico invece egli non nega né
sminuiscel’opinione che le stampe documentano, e si rifiuta altresì di
riconoscerne l’errore, cioèl’inconciliabilità nei riguardi del dogma e
della Scrittura. E’ in questo senso che a Veneziaaveva dichiarato di
«saper più degli Apostoli», e in Roma aveva negato ai Santi Padri
autoritàin materia di scienza, e si era detto preparato a chiarire
«tutti i primi theologhi del mondo, chenon sapriano rispondere»: la
verità certa e primaria, quella della prima filosofia, dovevaparergli
conciliabile con la verità rivelata, sia pure sfrondando duramente le
sovrastrutturedogmatiche, ritenute in gran parte arbitrarie.E’ in tale
direzione che si manifesta, nella fase ultima del processo romano,
l’aspirazionedel Nolano ad una radicale riforma religiosa. In questo
conato si innestano quei «rudimenti dicritica biblica», che già erano
stati acutamente rilevati nello Spaccio e che più largamentericompaiono
nei costituti, là nel tentativo di ridurre il cristianesimo a favola
morale, qui diforzare – spesso con evidente artificio – determinati
versetti, onde foggiarne sostegno alleproprie tesi naturalistiche.Qui è
la sintesi di quello che dové costituire, secondo l’analisi condotta
dal Firposulle fonti processuali, l’atteggiamento del Nolano riguardo
alle accuse che glivenivano mosse. La vicenda processuale affermò anche
la dignità della filosofiarispetto alla religione rivelata, ciascuna
delle quali si affermava «circa prima principiaindubitabilia» secondo
quanto sentenziato nella Summa terminorum metafisicorum,«con la
differenza che i principi della prima sono forniti d’immediata
certezzarazionale, quelli della seconda sono manifesti perché ci
provengono da una .Bruno, a cura di Vincenzo Spampanato, Firenze, 1933,
p. 66: i documenti raccolti inquest’edizione sono stati ristampati a
cura di G. Gentile dalla precedente pubblicazione dellostesso
Spampanato, Vita di Giordano Bruno con documenti editi e inediti,
Messina, Principato,1921 (riprod. anast. con postfazione di N. Ordine,
Gela, Roma 1988). Per la terza denucia delMocenigo si veda ora nella
nuova edizione del materiale processuale contenuta in L. Firpo,
Ilprocesso di Giordano Bruno, a cura di D. Quaglioni, cit., Doc. 10,
pp. 157-59.25 L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, a cura di D.
Quaglioni, cit., p. 105.
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Page 12 superiore intelligenza»26. Il contegno del Bruno nella fase
ultima del processo romanorivela quanto l’enunciazione teorica del
principio fosse seguita dalla suadimostrazione pratica di fronte agli
inquisitori, pur senza per questo giungere al puntodi «disumanare
l’eroe della vicenda per raggerarlo in una mitologia»27.Così Firpo
perviene alla sua Conclusione, dando veste critica all’immagine
delfilosofo quale si presenta nella sua pur demitizzata grandezza.
Firpo prosegue dunquedenotando28:L’atteggiamento del Bruno nel corso
del 1599 si illumina così d’una piena coerenza: nonquella monolitica
del diniego costante, ma quella umana e viva della lunga ed alterna
disputacoi giudici e più con se stesso. Non folle ostinazione, non
petulanza di grafomane si rivela nelsuo comportamento, ma volontà ferma
di non lasciarsi soffocare, ansia di farsi comprendere,parabola
dolorosa dalla speranza, allo stupore, alla disperazione. Il 25 gennaio
Giordano sipiega all’intimazione del Bellarmino, ma chiede la condanna
ex nunc e presenta un memorialea difesa: chiara è la contestazione del
valore dogmatico di alcune almeno delle proposizionicensurate: il
filosofo si sottomette docile, ma chiede in cambio riconoscimento di
coerenzaspeculativa e nega ogni preesistente definizione della materia
controversa. […] Si genera in luila persuasione di essere vittima d’una
congiura di teologi che voglion far passare per errorequello che tale
non è, o almeno mai fu definito, ed egli sente che l’opinione sua vale
la loro enon vuole accettarne la sentenza; nega perciò di aver mai
sostenuto eresie, non riferendosiinsensatamente alla massa di accuse
del processo, ma al ristretto elenco di tesi filosofichecondannate, e
rifiuta di rinnegarle non per ostinazione assoluta, ma per non
soggiacere a quelloche gli pare un sopruso; si appella con gli ultimi
memoriali al Papa, sperando che ClementeVIII possa intervenire, giudice
imparziale, in una disputa nella quale Giordano vede se stesso ei
membri del tribunale in qualità di contendenti, eguali affatto per
autorità e dignità.Lo storico torinese definisce in questo modo il
processo, giunto nella sua faseconclusiva, secondo i toni di una dotta
contesa tra l’imputato e i suoi accusatori.Secondo questa chiave di
lettura, accusa e (auto)difesa contendono l’una all’altra laragione
finale e conclusiva di un processo condotto fino al suo drammatico
epilogoattraverso affermazioni e contestazioni in tema di teologia così
dell’una comedell’altra parte.E se «nessuno vorrà negare alla Chiesa
cattolica che il processo fu condotto26 A. Corsano, Il pensiero di
Giordano Bruno nel suo svolgimento storico, cit., p. 275.27 Nel passo
appena citato, Firpo prosegue: «La prima tesi può dirsi quella
tradizionale,ricorre nel Berti e nel Tocco, trova pagine eloquenti nel
Gentile, costruisce il mito del Brunoeroico e indomabile, non più mero
difensore della teoria della doppia verità, ma assertore
dellasupremazia assoluta del vero speculativo sui dogmi delle religioni
positive, ridotte a semplicefunzione pratica e sociale. La sua
sottomissione veneziana viene spiegata così come un coerenteossequio
alla religio loci, un atto niente affatto umiliante, doveroso anzi e in
armonia con la severariprovazione del Nolano per i seminatori di
pubblico scandalo; quando poi i giudici veneti –alquanto
artificiosamente dipinti come superficiali dabbenuomini – cedettero il
posto agliinquisitori romani, al sottile Bellarmino, quando cioè
l’esteriore sottomissione meramentedisciplinare apparve insufficiente e
si volle che il Bruno subordinasse al dogma il proprio credofilosofico,
passando dal piano pratico al piano speculativo Giordano si sarebbe
mostratoinflessibile, senza un attimo di esitazione o di debolezza,
fino alla morte. V’è in questa tesi, comevedremo, tanta parte viva di
verità quanto basta ad assicurare da tutti gli antichi e nuovi
detrattorila grandezza del Bruno, ma v’è anche un semplicismo, una
tendenza a ridurre a moduli elementarie puramente razionali un
comportamento certo complesso e intessuto di molteplici motivi,
adisumanare l’eroe della vicenda per raggelarlo in una mitologia».28
Ibid., pp. 110-11.
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Page 13 secondo il rispetto della più stretta legalità, senza acredine
preconcetta, semmai conaccenni di tollerante comprensione per
l’eccezionale personalità dell’inquisito»,ciononostante «per quanti
ritengono invece arbitrario e violento, nel regno dellospirito, ogni
atto di autorità, e nella libera ricerca riconoscono la più
genuinavocazione umana, Bruno rimane la vittima di un’intolleranza, la
cui giustificazionenon va oltre il piano storico, l’assertore non già
di opinioni filosofiche contingenti,ma del diritto dell’uomo di credere
a ciò che pensa, non di pensare per forza quellocui altri vuol ch’egli
creda».Firpo, ciò premesso, può quindi concludere29:Giordano e i suoi
giudici restano così personificazioni di due mondi antitetici,
radicalmenteinconciliabili oggi come allora. Agli uomini dell’una e
dell’altra schiera soltanto si puòchiedere che le rissose contumelie
degli orecchianti, il loro sconsigliato zelo, non turbino queldibattito
che ancora continua, dopo la sentenza ed il rogo, dovunque autorità e
libertà sicontrappongono, in dialettica perenne, nella storia
dell’uomo.Il problema filosofico ed insieme religioso del contrasto e
dell’affermazione di unaverità sull’altra nel contesto di questo
momento storico era, nel momento in cui Firpodiede inizio alla sua
opera, già chiaramente scolpito in Corsano30:Da quando nel 1868 videro
la luce integralmente i documenti del processo veneziano, ilproblema
dell’atteggiamento del Bruno di fronte ai giudici veneti, prima, romani
dopo, èdivenuto uno dei più appassionanti della storiografia moderna.
Né si tratta delle sole difficoltàcausate dall’ancora insufficiente
documentazione del processo romano, le cui lacune è ormaivano sperare
che possano mai esser colmate, date le peripezie sofferte dall’archivio
del SantoUffizio nel periodo rivoluzionario e napoleonico. Ma persino
di fronte alla perfettadocumentazione del processo veneto sorsero e
perdurarono dissensi di estrema gravità:basterebbe citarne uno solo,
quello della impostazione dei rapporti fra filosofia e teologia.Intese
il Bruno di considerare le due verità eterogenee, e ciascuno a suo modo
perfetta, epperòincapaci di venire in conflitto e di richiedere alcun
rapporto di subordinazione e sacrificiodell’una all’altra, oppure
riconobbe una superiorità dell’una sull’altra? In questo caso,
qualedelle due considerò superiore.La questione qui accennata necessita
di un approfondimento, poiché è evidentel’indispensabile ricorso alle
opere, soprattutto considerando la pressoché totaleimpossibilità di
chiarire il problema con ulteriori ritrovamenti di carte processuali.
Esolo a tal fine risulta possibile affrontare in modo proficuo i motivi
insiti nellaspeculazione del Bruno: così invertendo l’azione compiuta
da Firpo, e quindileggendo l’opera del Nolano attraverso la fonte
processuale, quale momento diaffermazione compiuta del pensiero.Corsano
analizza il ritorno in Italia del Bruno, rinvenendone la causa nel
passaggioda quegli compiuto dalla teoria speculativa all’azione
pratica, riferendo dai documentiprocessuali l’affermazione «che sa più
degli Apostoli, che gli bastava l’animo di far,se avesse voluto che
tutto il mondo sarebbe stato d’una religione»31.29 Ibid., pp. 112-15.
Si vedano anche le considerazioni svolte in D. Quaglioni, Il Bruno
diLuigi Firpo, cit., pp. 45-46, già esaminate in nota 4
dell’introduzione, nelle quali si cita il passo inquestione.30 A.
Corsano, Il pensiero di Giordano Bruno nel suo svolgimento storico,
cit., pp. 275-76.31 L. Firpo, Il processo di Giordano bruno, a cura di
D. Quaglioni, cit., Doc. 8, pp. 152-54:l’affermazione è estratta dalla
deposizione del libraio Giacomo Brictano del 26 maggio 1592, nel
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Page 14 Ma ci sarebbe ancora da spiegarsi quel voler sapere «più che
non sapevano gli Apostoli»:che il Bruno volesse gareggiare in iscienza
e dottrina con i semplici discepoli di Gesù, non parnemmeno da
discutere: egli li avrebbe messi senza esitazione tra i sapienti di
virtù asinina,ricettandoli di una perfezione tutta passivamente
ricevuta, non attivamente ricercata eposseduta. E allora, per risolvere
ogni incertezza, non resta che ricorrere a un altro documentodi assai
più diffusa e minuziosa ampiezza, che è la denunzia del Mocenigo.Pur
definendo la fonte «assai sospetta», per la mediocrità e
meschinitàdell’accusatore, Corsano prosegue affermando:Tuttavia il
documento potrebbe valere assai più della fonte: tanto più che, fuor di
ogniindizio di natura psicologica, epperò troppo vago e congetturale,
si è gia avuto il modo disaggiarne la veridicità col confronto di altre
testimonianze: ciò fece il Tocco, trovanocoincidenze con i colloqui col
Cotin, nel mentre lo Spampanato ha rilevato che quasi tutte leaccuse
elencate nelle famosa lettera dello Scioppio sono quelle stesse che si
incontrano nelladenunzia. Un terzo procedimento di verificazione
potrebbe essere, a mio parere, il raffrontocon le opere inedite,
l’ultima testimonianza autentica del pensiero del Bruno.Tra queste,
tolti i De rerum principiis, che possono considerarsi una
concentrazione supeculiari problemi di fisica della dottrina generale
condotta a maturità nel De immenso, e laMedicina lulliana, che
dichiaratamente non intende esser altro che una compilazione,
meritanosoprattutto attenzione il De magia e il De vinculis.Si entra
ora nel vivo dell’analisi dei motivi profondi della magia sociale del
Bruno,così come asserita nelle due opere appena ricordate, e con
particolare riferimento allaseconda.Ora, ciò che colpisce più in queste
opere, che sappiamo essere dettate frettolosamente alBesler fra
Francoforte, Zurigo e Padova, come se il Bruno fosse incalzato da un
bisognoimperioso verso una impresa ormai indifferibile32, è il
prevalere dell’aspetto prammatico eantropologico, così singolarmente in
contrasto con la ispirazione pancosmica che abbiamovisto trionfare nel
De immenso.Corsano prosegue richiamando la definizione del mago, che
qui citiamo per interodal De magia, dove Bruno pone la necessità di
isolare semanticamente l’oggetto didiscussione ed attribuirgli il
giusto significato33:Antequam de magia, sicut antequam de quocunque
subiecto disseratur, nomen in suasignificata est dividendum; totidem
autem sunt significata magiae quot et magi.Magus I [primum] sumitur pro
sapiente, cuiusmodi erant trismegisti apud Aegyptios,druidae apud
Gallos, gymnosophistae apud Indos, cabalistae apud Hebraeos, magi apud
Persas,qui a Zoroastre, sophi apud Graecos, sapientes apud
latinos.Bruno apre il trattato passando in rassegna i diversi significati
assunti dal terminemagia, e delle caratteristiche che connotano
ciascuna delle tipologie elencate. Ad esseva aggiunta un’ultima
definizione, per la quale Bruno avverte:corso della fase veneta del
processo al Bruno.32 Qui Corsano evoca la Prefazione degli editori
Tocco e Vitelli al vol. III delle Opeare latinecona, contenente le
opere inedite, p. XXIV.33 Per i passi citati dal De magia di Bruno,
l’edizione di riferimento è Giordano Bruno, Operemagiche, cit., pp. 158
sgg.
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Page 15 Ultimo sumitur magus et magia iuxta significationem indignam,
ut inter istas nonannumeretur neque ad numerata habeatur, ut magus sit
maleficus utcunque stultus, qui excommercio cum cacodaemone et pacto
quodam pro facultate ad laedendum vel iuvandum estinformatus; et iuxta
hanc rationem sonat non apud sapientem, vel ipsos quidem
grammaticos,sed a quibusdam usurpatur nomen magi bardocucullis, qualis
fuit ille fecit librum De malleomaleficarum, et ita hodie usurpatur ab
omnibus huius generis oribus, ut legere licet apudpostillas,
catechismos ignorantum et somniantium praesbyterorum.Dalla sua rassegna
Bruno esclude, respingendola, la concezione in chiave negativadei
termini mago e magia, secondo la quale mago sarebbe anche colui che
intesserapporti o alleanze con demoni malvagi, così acquisendo la
facoltà di provocare ildanno o dare il giovamento. Abusato da scrittori
di bassa lega, i termini si richiamanonon presso i sapienti né dai
grammatici, ma «apud postillas, catechismos ignorantumet somniantium
praesbyterorum».Nomen ergo magi quando usurpatur, aut cum
distinctiontione est capiendum antequamdefiniatur, aut si absolute
sumitur, tunc iuxta praeceptum logicorum et specialiter Aristotelis inV
Topicorum pro potissimo et nobilissimo significatu est capiendum.E’ la
conclusione, l’ammonimento finale, dove Bruno considera come il
nomemago debba assumersi, ancor prima di definirlo, tenendo presenti le
sue varieaccezioni, «aut si absolute sumitur» nel suo senso eminente e
principale.A philosophis ut sumitur inter philosophos, tum magus
significat hominem sapientem cumvirtute agendi.Corsano approfondisce
l’analisi intorno al De vinculis in genere, considerando orada vicino
l’arte dell’avvincere, ed inserendola all’interno di considerazioni
critichesulla speculazione bruniana che, nel suo ultimo tratto, si fa
pratica anelando adattuarsi in chiave civile34.E nel cenno introduttivo
al De vinculis in genere, per il possesso di quest’artedell’avvincere,
senza di cui non si è medico, non indovino, non uomo d’azione, non
amante,non filosofo, se si richiede una conoscenza universale delle
cose («rerum quodammodouniversalem rationem») si è per la conoscenza e
per il dominio compiuto dell’uomo, «quiepilogus quidam omnium est»; e
si dichiara insistentemente essere quest’arte inalienabiledall’azione
sociale, come strumento infallibile per operare sugli uomini e piegarli
ai propri fini,e cogliere tutti i processi di reciproca attrazione e
seduzione che operano sulla natura umana:sia che abbiano origine
psicofisica da istinti e bisogni di sensuale dilettazione, sia che
neabbiano una più schiettamente psichica e culturale, derivante da
opinioni e convenzioni che, sestabilite, acquistano carattere di
naturale fissità; sia che vengano infine da
un’affascinatrice,persuasiva potenza di numeri e costrutti, quale
esercita la bene ornata parola dell’oratore.[…] Ma qui importa
soprattutto segnalare come vi domini la preoccupazione del
dominioetico-sociale, del «civiliter vincire», che ritorna quasi ad
ogni passo dell’opera, e si determinacon maggiore vigore
nell’ammonimento che cotesto risultato non si possa conseguire se non
sidistingua bene la diversità dei temperamenti su cui si opera
(«diversitatem compositionum etcomplexionum»), e non si sappia che
altro è condursi con gli uomini di alta eroica natura, altrocon i
comuni, altro con i più rozzi e brutali.Si potrebbe dunque pensare che
il Bruno s’illudesse di poter fare accettare quella suareligione della
pura filantropia agli uomini tutti, quando gli avviene così spesso di
mettere fra i34 A. Corsano, Il pensiero di Giordano Bruno nel suo
svolgimento storico, cit., pp. 278-83.
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Page 16 fondamenti della sua etica la filautia, col riconoscimento
della quasi inestirpabile dedizionedell’uomo all’amor di sé,
all’egoismo caparbio e inflessibile, ma a suo modo
perfettamentenaturale, quindi razionale?La risposta ce la danno le Tesi
sulla magia: in cui fra le condizioni fondamentali dell’azionemagica,
pel dominio della universale natura dell’uomo e per l’uomo, è posta la
fede,onnipotente operatrice di miracoli […]dichiarata «vinculum magnum
et vinculumvinculorum», cu seguono «veluti filiae», tutte le forze più
poderose dello spirito umano, daquelle più alte, «spes, amor, religio»,
alle più torbide e irruenti ma anche potenti e operosepassioni; e la
scienza non men che l’ignoranza, causatrice di prava disposizione
all’agire.E si sottolinei con decisione il legame delle precedenti
considerazioni con lareciprocità del vincolo, che qui si va componendo,
secondo l’interpretazione diCorsano, nell’indagine del Bruno35.Così era
anche naturalmente segnato il passaggio al De vinculis, potendosi ben
considerarela fede come il modello più perfetto di quel vincolo che
connette con uguale potenza diobligatio il vinciens e il vincibile, il
soggetto attivo operante e il passivo credente. Poiché qui ilBruno
raggiunge la più alta consapevolezza di quello che aveva già avvertito
nei termini piùapertamente naturalistici delle opere precedenti: non
potersi far credere senza credere, poiché“non est possibile vincire
quenquam sibi, cui vinciens ipsum non siet etiam obligatus”, poichéper
operosa e dominatrice che sia la condizione del vinciens, in quanto
vinculis dominans e taleda essere affetto solo per una sua peculiare
maniera, non può essere che egli si sottraggaall’intima legge della
reciprocità del vincolo senza cadere nella impotenza: come non
puòessere veramente amato chi non ami, come non c’è retore che persuada
senza essere persuaso.La concezione della magia in chiave civile
conduce il Nolano ad un atteggiamentoche interpreta quindi il vincolo
inserendolo nel contesto sociale.Se «l’impianto teorico della
concezione bruniana della magia poggia su dueprincipi semplici: 1) la
continuità scalare del reale o scala degli esseri; 2)l’onnipervadenza
dell’anima del mondo o spirito universale», le cautele con le qualisono
poste le distinzioni in tema di concezioni della magia, secondo la
prospettivaadottata in apertura del De magia, precedono le
considerazioni svolte sul tema delciviliter vincire36.Bruno, dunque,
afferma la dignità della magia liberandola dalla critica negativafrutto
di certi autori, svolgendo poi in maniera lucida le proprie
considerazioni sulla35 Ibid.36 A. Biondi, Introduzione, in Giordano
Bruno, De magia, De vinculis in genere, a cura di A.Biondi, Pordenone,
Biblioteca dell’Immagine, 1986, pp. IX-XIX. Il curatore
dell’edizioneprosegue affermando: «La scala degli esseri è simbolo
tradizionale della continuità del reale […]:Bruno la delinea in
ripetute occasioni, e da diversi punti di vista, articolandola
variamente,moltiplicandone I passaggi o gradi o livelli. Essa è il
tramite o la sede di un processo antitetico didiscesa/ascesa che
esprime il movimento delle forme nello spazio infinito e nel tempo
infinito. Idislivelli di realtà sono il presupposto della dottrina
degli ‘influssi’ e dei ‘vincoli’: “principio dellamagia è considerare
l’ordine degli influssi o scala degli enti: che è lo strumento per cui,
comesappiamo, Dio agisce sugli dei, gli dei sugli astri, gli astri sui
demoni, i demoni sugli elementi, glielementi sui composti”. Ad ogni
livello di questa scala si identifica una realtà superio

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